27 Mar 2021

Rileggendo “Essere singolare plurale” di Nancy: pensare la vita per capire chi siamo

Jean-Luc Nancy

Abbiamo mai “pensato la vita”? Il pensiero occidentale ha mai indagato radicalmente le strutture fondamentali della nostra esistenza?

Certamente ha provato a farlo Jean-Luc Nancy in Essere singolare plurale, da poco ripubblicato in un’edizione ampliata da Einaudi.

Nel suo densissimo saggio, composto di tredici brevi quanto pregnanti affondi, il filosofo indaga l’essere-con non solo dell’essere umano, ma dell’essere in quanto tale. Partendo dal Mit-Sein dell’analitica esistenziale di Martin Heidegger, per oltrepassarla: il tedesco ha avuto infatti il merito di portare alla luce questa struttura fondamentale dell’essere e del nostro (in quanto uomini) essere, ma non ha sputo – sostiene Nancy – indagarla fino in fondo in tutte le sue potenzialità.

Essere singolare plurale significa che tutto ciò che è è sempre con: anche l’individuo, ogni individualità ontologica anzi, è sempre con, in rapporto a, in condivisione con. Ciò non significa annullare l’essere singolare – le origini, nel gergo del filosofo – ma riconoscere che la loro essenza è l’essere con, che ne definisce irreversibilmente ogni aspetto, manifestazione, estrinsecazione.

Una suggestione, quella di Nancy, che forse resta ancora da indagare in tutti i suoi possibili sviluppi. Sia come rivelazione dell’essere singolare plurale quale cifra decisiva dell’essere, di ogni essere; sia come indicazione metodologica: un’ontologia può scaturire solo dall’indagine dell’essere e dell’esistenza nelle sue categorie, per così dire, più elementari.

Cosa significa questo? Che, probabilmente, non abbiamo ancora pensato abbastanza la vita. A uno sguardo fenomenologico, cosa appare? Ad esempio che ogni essere è singolare e plurale, come insegna Nancy. Ma anche, per fare un altro esempio, che ogni essere singolare plurale nasce e muore; se nasce, dipende da altri; che ha un corpo; che modifica l'”ambiente” che lo circonda; che deve nutrirsi per non morire; che stabilisce legami con persone e cose che diventano essenziali; che occupa uno spazio e un tempo che gli preesistevano…

Fatti elementari, che forse non abbiamo mai pensato come meriterebbero…

18 Nov 2020

Critica della ragione del lettore – Perché leggere è un’esperienza meravigliosa

Si vuole qui tentare di elaborare una Critica della ragione del lettore.

  1. Il lettore è alla ricerca di qualcosa che sente di non avere, di qualcosa che gli manca, che desidera, anche se quasi sempre non sa dargli un nome.
  2. Quindi il lettore sente di non bastarsi, di non essere autosufficiente.
  3. Per questo cerca al di fuori di sé qualcosa che percepisce di non avere già in sé.
  4. A riprova di questa propensione all’alterità del lettore sta il fatto che si rivolge a qualcosa di altro da sé sotto diverse forme.
  5. Anzitutto prende in mano un libro, un oggetto esterno, e poco cambia se sia in formato cartaceo o digitale.
  6. Poi si affida a un autore, colui che ha scritto quel libro, ma ancor prima a un editore, uno stampatore, un distributore, un libraio…
  7. Caratteristica fondamentale del lettore è l’ascolto, ulteriore conferma della sua disponibilità all’alterità: chi legge fa silenzio dentro di sé per mettersi in ascolto di qualcosa.
  8. Vale la pena sottolineare che, soprattutto in tempi frenetici e sovraccarichi di informazioni e proposte, fare ascolto, cioè creare uno spazio, un vuoto in sé per creare le condizioni per accogliere qualcosa d’altro, è un gesto tutt’altro che banale, se non rivoluzionario.
  9. Quindi il lettore è accogliente, è aperto all’ospitalità.
  10. Non è un gesto semplice, quello compiuto dal lettore. Leggere significa mettersi in sintonia con il pensiero di un altro – il narratore -, accettare di capire ciò che racconta e comunica, sintonizzarsi con una trama, imparare a riconoscere dei personaggi, memorizzare la successione degli eventi…
  11. Nella lettura il mondo esterno è, per così dire, momentaneamente sospeso, mentre uno nuovo, inedito, si va formando nella sua mente.
  12. E questo mondo nuovo sorto nella sua mente entra in relazione con il suo mondo interiore e, per questa via, modifica anche la sua percezione del mondo esterno.
  13. Il lettore ha voglia di imparare qualcosa di nuovo, di viaggiare, di conoscere altre culture, altre persone, altri popoli al di là dei limiti fisici ed economici imposti dalla vita.
  14. Leggere è un atto dinamico, attivo, creativo, perché se il corpo è fermo, la mente corre…
  15. In ciò la lettura si differenzia da molte altre attività simili.
  16. Leggere è un esercizio di concentrazione su un solo oggetto: qualità sempre più rara di questi tempi in cui siamo “concentrati” su mille cose contemporaneamente, e quindi su nessuna in maniera profonda (chi ha detto che il multitasking è una qualità?).
  17. Leggendo si fugge e al tempo stesso si ricostruisce il mondo.
  18. Nella lettura è come se il mondo esterno venisse sospeso, come se le distrazioni tacessero, permettendo così al lettore di mettersi in ascolto della sua interiorità, del suo io più profondo, dei suoi pensieri, sentimenti, esperienze, i quali vengono maieuticamente evocati da ciò che si sta leggendo, dalla storia che si sta raccontando e da ciò che accade ai personaggi. Leggendo, ci si riconnette alla propria interiorità, offuscata dai rumori del mondo.
  19. Leggendo, mi incarno in altre persone, vivo altre epoche, faccio esperienze che mai avrei fatto, visito luoghi sconosciuti… amplifico libro dopo libro il mio io, che si espande e cresce fino a diventare così vasto da contenere moltitudini (Walt Whitman).
  20. Leggendo sono diventato donna, sono tornato bambino, mi sono trasformato in un anziano; sono stato un soldato e il suo nemico; ho compiuto il bene e il male; ho assunto mille nazionalità e parlato altrettante lingue: sono diventato parte dell’umanità.
  21. Leggere è un ottimo modo per comprendere la molteplicità dei punti di vista, il pluralismo delle idee. Ogni personaggio, a cui bisogna aggiungere lo scrittore, la pensano a modo loro e vedono un fatto coni loro occhi singolari. Diversamente dagli altri, con sfumature diverse. Il lettore conosce l’uno e l’altro, vede il bianco e il nero. Perciò la lettura è una straordinaria scuola di empatia e di educazione al dialogo e al pluralismo. E alla tolleranza: perché comprendo che ogni cuore ha le sue ragioni.
  22. La lettura è, semplicemente, compagnia e fonte di consolazione. È compagnia nella solitudine, antidoto alla noia. E consolazione dalle amarezze del mondo, in quanto gesto intimo, privato, personale, in cui il mondo ritrova un ordine e un senso.
  23. Ritrova un ordine e un senso non perché eluda o superi il dolore e il male, ma tematizzandoli, facendoli l’oggetto del narrare. Scoprendoli nel mondo, nella storia, negli altri, il lettore ne diventa consapevole, li accetta come parte di sé, con cui convivere.
  24. Leggere è un atto di libertà: scelgo cosa leggere, quale autore, quando, dove…
  25. Se un lettura è imposta, non è autentica lettura, ma qualcosa di diverso.
  26. Leggere è tuffarsi nella vita: ogni libro ne è un concentrato.
  27. Leggere educa alla pazienza: di seguire la trama, di conoscere un po’ alla volta i personaggi, di non capire e sapere tutto fin dall’inizio e senza alcuno sforzo…
9 Apr 2020

Dietrich Bonhoeffer moriva 75 anni fa: una lezione ancora da imparare

Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano, moriva esattamente 75 anni fa, il 9 aprile del 1945, ucciso dai nazisti per aver congiurato contro Hitler. È l’occasione per rileggere il suo capolavoro, Resistenza e resa. Ecco qui un video con la presentazione di questo capolavoro del pensiero del Novecento:

https://www.famigliacristiana.it/video/un-libro-san-paolo-per-la-quarantena.aspx

A questo indirizzo, invece, una recensione più analitica del pensiero del teologo: https://www.famigliacristiana.it/blogpost/bonhoeffer-e-il-dio-per-un-mondo-adulto.aspx

4 Mar 2020

Per un’etica – Imperativo categorico 2 – «Non fare agli altri ciò che non vuoi che venga fatto a te»

Per definire un’etica che si avvalga della lezione dell’esperienza, ma che avvia una valenza universale (vedi l’articolo introduttivo), dopo il primo imperativo categorico (vedi qui), proviamo a proporne un secondo: «Non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te».

Certamente qui non scopriamo nulla di nuovo, ma riscopriamo la sapienza intramontabile di una massima divenuta patrimonio comune. Da un punto di vista filosofico, la sua forza risiede nel fatto che costringe il soggetto etico a regolare la propria azione mettendosi nei panni dell’altro, partendo però da sé stesso. C’è un doppio movimento in questo imperativo: verso l’altro («non fare agli altri») e verso sé stessi («quello che non vuoi venga fatto a te»).

Contro questo principio viene sollevata di solito un’obiezione: ciò che piace a me, ciò che è bene per me, non è detto che lo sia anche per l’altro. Anzi, a volte è addirittura il contrario. Tuttavia, come anticipato sopra, la forza di questa massima sta nell’indurre ciascuno a capire ciò che è bene per l’altro, non per se stesso. Ognuno di noi, infatti, chiede agli altri che “gli venga fatto” tutto ciò che è bene per lui, non ciò che è bene per gli altri. Perciò il soggetto etico, se vuole agire davvero come una persona buona, deve sforzarsi di capire ciò che l’altro considera bene per se stesso e non imporgli ciò che è bene per lui.

Così questa regola aurea, in apparenza così semplice, addirittura naïf, rivela una profondità, uno spessore e una complessità insospettabili, dicendoci che se vogliamo comportarci in modo eticamente corretto non basta “fare all’altro” ciò che per noi è bello, buono, utile (che può trasformarsi addirittura in qualcosa di brutto, cattivo, inutile); è invece necessario impegnarsi a scoprire quello che per lui è bello, buono, utile.

(Apro qui una parentesi: questa interpretazione del “non fare all’altro ciò che non vuoi che non venga fatto a te, evoca il concetto evangelico del “farsi prossimo” come risposta alla domanda: chi è il mio prossimo?).

Nel commentare questa massima abbiamo volto in positivo una frase formulata in negativo: da “non fare” è diventato un “fare”. Ciò è diretta conseguenza della nostra interpretazione: mettendosi nei panni dell’altro per capire qual è il bene che desidera non ci limitiamo a omettere quelle azioni che potrebbero danneggiarlo, ma ci impegniamo a procurargli il bene che ci è possibile. Da un atteggiamento passivo, a un atteggiamento attivo. 

Infine, potremmo definire questa seconda regola come la regola etica dell’empatia. 

 

6 Gen 2020

Per un’etica – Imperativo categorico 1: «Agisci come se i tuoi figli ti stessero guardando e in modo che non si debbano mai vergognare di te»

 

Il primo imperativo di un’etica che voglia dare un valore universale all’esperienza è: «Agisci come se i tuoi figli ti stessero guardando e in modo che non si debbano mai vergognare di te».

Credo che chi è genitore non abbia difficoltà a capire il senso di questo imperativo: è insostenibile l’idea di compiere il male davanti ai loro occhi, come quella di fare scelte o mettere in atto azioni che possano provocare in loro la vergogna di avere un padre e una madre del genere.

Ai figli vogliamo dare il meglio, anche di noi stessi. Spesso vorremmo offrire loro anche più di quello che siamo in grado di dare. Ecco allora che rivolgere un pensiero nel momento della decisione a loro, al loro sguardo e alla loro azione, può aiutarci a mettere da parte istinti violenti, aggressività, collera per lasciare spazio invece alla ricerca del giusto, dell’onesto, del buono.

5 Gen 2020

Per un’etica – Introduzione

Con questo articolo ha inizio un tentativo di costruire un’etica, vale a dire la definizione di una serie di regole in grado di orientare le nostre decisioni.

I punti di riferimento saranno due. Il primo è l’etica kantiana con i suoi “imperativi categorici”: gli obblighi morali devono infatti avere un valore universale, devono essere validi per tutti gli uomini in ogni tempo. L’altro riferimento è l’esperienza.

In questo modo, esperienza particolare e universalità si incontrano. Se un imperativo morale deve essere universale, è però la nostra esperienza a dargli sostanza, a impedirgli di essere pura astrazione o esercizio logico. E se l’esperienza non acquisisce forma universale, non può assurgere a comando riconosciuto come degno di essere osservato da tutti.

Questa ricerca nasce dunque come sintesi di logos ed esperienza, razionalità e vita.

Perché cimentarsi in un progetto del genere? Perché è inevitabile che accada di trovarsi in situazioni in cui abbiamo un disperato e urgente bisogno di sapere come dobbiamo comportarci, quale decisione dobbiamo prendere. E per lasciare una piccola eredità ai miei figli (che, probabilmente, non leggeranno mai queste righe).

24 Ago 2019

C’era una volta l’America (però non come ce l’hanno raccontata loro…)

The 1619 Project è una grande iniziativa editoriale del New York Times: scrittori, storici, giornalisti si sono prefissi l’obiettivo di riscrivere la storia degli Stati Uniti senza omettere, anzi mettendo al centro, come evento fondativo, la riduzione in schiavitù degli africani. Il 1619 è appunto l’anno della prima vendita degli schiavi africani ai coloni americani. La convinzione è che la straordinaria crescita economica del nuovo Paese e quindi il modello vincente del capitalismo poggino le loro basi, e la loro fortuna, sulla manodopera ridotta appunto in schiavitù, quindi a costo zero o quasi. Ricordiamo che la schiavitù negli Usa fu abolita solo nel 1865.

Con l’aiuto della letteratura, che spesso arriva in anticipo sulle inchieste giudiziarie, giornalistiche e storiche, dobbiamo prendere atto che la storia degli Stati Uniti trae le sue origini da due colossali ingiustizie.

Toni Morrison (1931-2019) con Barak Obama.

La prima è quella su cui indaga il New York Times e che abbiamo appena ricordato. Per trovare materiale e conferme, basta leggere l’opera di Toni Morrison, la grande scrittrice afroamericana Nobel per la letteratura, scomparsa qualche settimana fa. Oppure i romanzi di Colson Whitehead, in particolare La ferrovia sotterranea o I ragazzi della Nichel, in uscita il 3 settembre (ho avuto la possibilità di leggerlo in bozze e la mia recensione comparirà come al solito su Famiglia Cristiana: un libro stupendo).

Tuttavia all’origine della storia e del successo degli Stati Uniti non c’è solo la schiavitù degli africani all’origine della storia e del successo Usa, c’è un’altra ferita che tende ad essere rimossa: il furto della terra e il massacro sistematico di chi in quelle terre già viveva, i cosiddetti nativi americani, a partire dal XV secolo fino al XX. Un autentico genocidio, che viene rievocato molto raramente. Su questo aspetto fondativo degli Stati Uniti – la terra e tutte le ricchezze relative se le sono procurata così – raccomando la lettura di Il figlio di Philipp Meyer, un capolavoro che racconta la storia di una famiglia nel Texas, dalla conquista sanguinosa della terra all’industria petrolifera.

È encomiabile il progetto del New York Times, ricordato da un articolo su la Repubblica di oggi. C’era una volta in America, ma non come ce l’hanno raccontato fino a oggi.

 

26 Mag 2019

Quelle mostre Experience… che brutta esperienza

Visitatori alla mostra “Inside Magritte”.

Sono di gran moda, oggi le mostre multimediali. Si tratta di esposizioni che non esibiscono le opere degli autori, ma raccontano i loro autori e i loro lavori attraverso video. Spinto dal desiderio di avvicinare i miei figli all’arte, attraverso un linguaggio moderno e a loro congeniale, ho visitato la mostra Inside Magritte alla fabbrica del vapore di Milano, conclusasi a febbraio, e The Genius Experience, dedicata a Leonardo, in corso alla Cripta di San Sepolcro, sempre a Milano.

La mia experience? Deludente.

Provo a spiegare perché. Queste mostre consistono in sostanza in un video di un’ora circa che, puntando su effetti suggestivi e spettacolari, cerca di colpire il visitatore trasmettendogli una serie di informazioni. E in parte vi riesce, grazie a immagini coinvolgenti e ad affetto. Tuttavia, si tratta di un approccio estremamente superficiale all’arte, che lascia piuttosto vuoti. È una forma di fruizione dell’arte che non richiede alcuna fatica, al punto che non costringe nemmeno a confrontarsi con l’opera vera e propria, ma travolge con contenuti quasi esclusivamente visivi che suscitano sensazioni effimere.

Si dirà: è una modalità per incuriosire i più piccoli. In parte sono d’accordo, a condizione che questo genere di proposte venga utilizzato come introduzione a un autore e alla sua opera e venga poi completata con la visione delle opere vere e proprie.

Sempre la mostra multimediale su Magritte alla Fabbrica del Vapore.

Mi sembra che queste esposizioni “modalità Experience” seguano e alimentino la tendenza oggi dominante di fruire rapidamente e senza sforzo dell’arte (come di tante altre realtà), puntando tutto sulle emozioni, senza la fatica dello studio, della preparazione, dell’interpretazione, del ragionamento. Tante sensazioni, insomma, e poca profondità. E infatti ciò che resta nel cuore e nella mente è davvero poco.

Non avrebbe più senso, intendo anche in relazione all’educazione all’arte delle giovani generazioni, soffermarsi per un mese su una singola opera, spiegarne la genesi, le tecniche, risalire all’artista che l’ha creata, alla sua vita e alla sua epoca, metterla in rapporto con le sue altre creazioni e con quelle di altri artisti coevi o di altre epoche per affinità tematiche? Magari i ragazzi all’inizio dovrebbero fare qualche sforzo, ma sicuramente sarebbe ben ripagato con una soddisfazione ben più profonda e duratura.

Un’ultima nota: perché queste mostre, che non espongono le opere autentiche (una sola, di Warhol, in The Genius Experience), e che quindi non richiedono i costosissimi “affitti” dell’opera con relative spese di assicurazioni, trasporto ecc., hanno biglietti d’ingresso così cari? Esattamente come se si andasse a vedere Antonella da Messina a Palazzo Reale… Si tratta di costi a mio avviso ingiustificabili: commissionare a una qualche agenzia un video multimediale di un’oretta non comporterà mai le stesse spese dell’allestimento di una mostra con quadri “in carne e ossa”, anche a prescindere dalla differenza di valore fra le due modalità espositive.

Per approfondire: Contro le mostre di Vincenzo Trione e Tomaso Montanari (Einaudi).

Infine: visto che ho accennato al tema dell’educazione dei giovani, aggiungo soltanto che la Philosophy for Children (di cui in questo sito parlo molto e che ha spazi dedicati) garantisce una Experience che va in direzione opposta, essendo fondata sul ragionamento, il confronto, la ricerca individuale nella comunità di verità divise. Certo, nel suo farsi chiede più impegno, ma di sicuro regala frutti più succosi…

 

7 Apr 2019

Il vero significato della “fine della storia” secondo Francis Fukuyama

Francis Fukuyama e la copertina dell’edizione americana del suo ultimo libro, Identità.

Sicuramente il nome di Francis Fukuyama è legato soprattutto all’idea della “fine della storia”, espressa in un saggio del 1992, intitolato La fine della storia e l’ultimo uomo, pubblicato nel 1992.

Scritto all’indomani del crollo del Muro di Berlino, del dissolvimento dell’Unione sovietica e della fine dei due blocchi e quindi della Guerra fredda, quell’idea non suscitò subito il dibattuto che avrebbe scatenato di lì a pochi anni. Una serie di eventi – fra cui nuovi conflitti, la crisi di diversi stati democratici e il ritorno a regimi totalitari – sembrò gridare al mondo che la storia non era affatto finita, come stavano a dimostrare appunto gli ultimi eventi.

Francis Fukuyama non ha mai ritrattato del tutto quella sua tesi, piuttosto si è affannato a più riprese a specificarne il significato autentico. Lo ha fatto anche nel recente saggio Identità (Utet), in occasione della cui pubblicazione ho avuto la possibilità di incontrarlo di persona e intervistarlo.

La mia modesta opinione è che Fukuyama abbia ragione, a condizione che la sua tesi venga compresa in un’accezione ampia, non letterale.

“Fine della storia” in senso letterale significa che la democrazia – con i valori di libertà, rispetto dei diritti, uguaglianza, equilibrio dei poteri ecc. su cui si fonda e a cui dà forma – ha ormai trionfato a livello planetario e quindi ha raggiunto la sua destinazione finale. Intesa così, la teoria è chiaramente datata e superata, persino ingenua.

Tuttavia a mio avviso il politologo americano voleva intendere un’altra cosa: che la storia si muove inesorabilmente verso la libertà e i diritti, che trovano la loro incarnazione politica appunto nelle democrazie liberali. Certo, dopo la caduto del Muro e la disgregazione dell’Urss la storia ha compiuto un balzo in quella direzione, ma non si è certo compiuta – e chissà se si compirà mai del tutto, verrebbe da aggiungere. E tuttavia quel movimento storico verso la libertà e i diritti, il rispetto dell’individuo, l’uguaglianza e la giustizia è inarrestabile, incancellabile, per la ragione che l’uomo in quanto tale aspira a essere libero e a vedere riconosciuti i suoi diritti. Metaforicamente si potrebbe dire che il processo storico verso la libertà – usiamo questa parola per sintetizzare tutti i valori indicati sopra – assomiglia a quella che in natura è l’evoluzione: legge interna al mondo naturale, sempre in azione. 

Quindi Fukuyama con la sua controversa teoria sulla “fine della storia” ha indicato la dinamica teleologica della storia, non un dato di fatto. Chi crede che davvero libertà e diritti della persona siano le mete cui aspira ogni uomo e che queste trovano incarnazione politica nella democrazia liberale (certo, poi bisogna cominciare a discutere su che cos’è una democrazia liberale…) può quindi dirsi d’accordo con lui.

Un’ultima annotazione: il discorso di Fukuyama è profondamente hegeliano, in questo individuare una tensione, un cammino della storia verso la libertà.

11 Nov 2018

M – Il figlio del secolo, un romanzo da non perdere

Avrete sentito parlare di M – Il figlio del secolo, il “romanzo” di Antonio Scurati edito da Bompiani dedicato a Mussolini. E vi sarà giunta notizia anche della strigliata di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera, dovuta ad alcuni grossolani errori storici, peraltro non visti da molti altri che avevano letto il libro prima di lui.

Quello che mi preme dire è che M – Il figlio del secolo è comunque un romanzo fondamentale, da non perdere, con cui è necessario misurarsi. Il libro ricostruisce la vita di Mussolini, dei personaggi che gravitavano attorno a lui e della vita italiana fra il 1919 e il 1924, praticamente fino all’indomani del delitto Matteotti.

Una ricostruzione minuziosa, dettagliatissima, basata su numerose fonti storiche; 850 pagine che scorrono coinvolgenti e appassionanti come un romanzo.

Perché, non è un romanzo, può chiedere qualcuno?

La questione va spiegata. M -Il figlio del secolo si presenta come un romanzo, ma ha le sembianze di una cronaca giornalistica o storiografica di ciò che accadde nei giorni in cui nacque il fascismo e conquistò il potere. Dunque alla base sta una impressionante ricerca storica, elaborata, poi, per così dire, da Scurati per trasformarla in romanzo. Il quale, proprio per la sua genesi, mantiene però un forte verosimiglianza con la realtà.

Sui contenuti del libro, le analogie con il presente e soprattutto le ragioni per cui Mussolini fu davvero il figlio del secolo mi soffermo nella recensione che uscirà giovedì prossimo su Famiglia Cristiana.

Concludo riaffermando l’importanza di questa operazione culturale, che potrebbe rivelarsi di grande utilità anche per gli studenti impegnati ad approfondire quel periodo storico.

 

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Chi sono

Sono nato a Vicenza nel 1968. Mi sono laureato in Filosofia a Padova con una tesi su Martin Heidegger, poi ho frequentato il Biennio di giornalismo dell’Ifg di Milano. Sono caporedattore e responsabile del settore Cultura e spettacoli di Famiglia Cristiana. Mi sto occupando di Filosofia per bambini e per comunità (P4C). [leggi tutto…]

Preghiere selvatiche

There's a blaze of light In every word It doesn't matter which you heard The holy or the broken Hallelujah
Leonard Cohen