Elenco degli articoli in "Storie (Letteratura)"
Due o tre libri che regalerei
E’ consuetudine che un amico, a Natale, mi chieda i titoli di alcuni romanzi da regalare alla moglie. Anche quest’anno ho preparato un foglietto con i miei suggerimenti. Nella foto che vedete qui sopra, ecco gli autori e i titoli segnati nella parte alta del foglietto.
Si tratta di libri di diverso valore e natura, ma tutti meritevoli di una lettura.
Etty Hillesum, trovare il bene nel male
Adelphi ha pubblicato l’edizione integrale dei Diari di Etty Hillesum, la ragazza ebrea che, nel buio del lager, seppe trovare e donare luce. È la prima volta che questa preziosa testimonianza viene presentata nella sua interezza. Ho scoperto la sua storia e, soprattutto, il suo messaggio grazie a una cara amica, che in lei ha trovato un esempio e la forza per vivere e dare senso al suo dolore personale.
L’inestimabile insegnamento che viene da questa giovane è che anche al cospetto del male, dell’ingiustizia, della disumanizzazione è possibile non solo non perdere la propria dignità di persone, ma anche inseguire e gustare una inspiegabile gioia e pienezza. Nella più piena e assurda insensatezza c’è un senso. Tutto ciò ha a che fare con il mistero del dolore, del male, e con la sua accettazione. Un tema che – lo confesso – mi resta ostico e insuperabile. Di fronte al male, la mia reazione tende a vincerlo, superarlo, trasformarlo almeno. Difficile è, per me, l’accettazione. Eppure di continuo sbatto contro questa parola: l’accettazione della vita, anche nelle sue pieghe negative. La mia pochezza mi porta a scindere l’energia e l’impegno attivo da mettere in campo contro il male dalla sua accettazione, come poli incompatibili e inconciliabili. Forse non è così, sicuramente non sarà così.
Ho letto con enorme interesse, in questo senso, La bontà insensata di Gabriele Nissim.
Etty che dice? Che di fronte a ciò che non può essere cambiato, resta la possibilità dell’accettazione e di uno sguardo interiore che conduce a una gioia e a una serenità insospettabili. “Non sforzarti di cambiare ciò che non puoi cambiare, sforzati di cambiare ciò che puoi cambiare”, recita un detto francescano. Di certo, dalla natura della nostra “risposta” esistenziale al male che incontriamo dipende la qualità della nostra vita, della nostra serenità. Senza una personale risposta allo scandalo del male, qualcosa continuerà a inquietarci, come una spina conficcata nel cuore.
Mettiamoci all’ascolto di Etty, dunque.
Andrea De Carlo ha scritto un capolavoro?
Sto leggendo, con gusto, piacere e curiosità, l’ultimo romanzo di Andrea De Carlo, Villa Metaphora (Bompiani), un romanzo di oltre 900 pagine. E, arrivato a metà, non posso fare a meno di chiedermi se è un capolavoro. Sì, un capolavoro: una parola, un giudizio che – sia chiaro – ho chiamato in causa molto raramente per la narrativa contemporanea. Per Lo stato delle cose di Richard Ford, per La torre di Uwe Tellkamp, mai, se la memoria non m’inganna, per scrittori italiani…
Ebbene, la sensazione è che De Carlo abbia davvero realizzato un’opera di grande valore, congegnata in maniera perfetta dal punto di vista narrativo, dando prova di una padronanza assoluta della materia e della lingua; piena di storia e di storie, di personaggi, di trama, di plot, insomma, non un puro e manieristico esercizio letterario; ricca di implicazioni, significati, rimandi all’attualità nemmeno tanto coperti, ma non per questo meno efficaci ed esilaranti…
Un capolavoro, dunque? Lo scriverò appena conclusa la lettura. Intanto segnalo la presenza di un libro ispirato, maturo, avvincente, che profuma di…
La (buona) solitudine di Paolo Giordano
Ho letto Il corpo umano, il secondo e ultimo romanzo di Paolo Giordano, il giovane fisico che aveva vinto lo Strega con il romanzo rivelazione La solitudine dei numeri primi (entrambi Mondadori).
In attesa di condividere sul blog una recensione ragionata, qualche appunto.
Tanto si è parlato di come il titolo del romanzo d’esordio abbia contribuito in maniera decisiva al suo successo. A mio giudizio, questo secondo titolo, in apparenza piatto e meno evocativo, è molto bello. Da qualche parte ho letto che sarebbe stato l’autore a sceglierlo. Perché lo trovo tanto bello? Perché aderisce perfettamente al contenuto, all’idea di fondo del romanzo.
Giordano è stato molto bravo a gestire l’ansia da prestazione che coglie gli scrittori alla seconda prova. Lui stesso ha raccontato di come ne sia stato vittima. Chissà, il viaggio in Afghanistan, che molto ha ispirato Il corpo umano, forse gli è servito a creare quel distacco geografico e quindi piscologico che gli era necessario per ripartire.
Mi sembra chiaro che Giordano dia il meglio di sé quando indaga “situazioni estreme”, ovvero quelle esperienze in cui l’umanità dei suoi personaggi, messi alle strette, spogliati dalle maschere e dai ruoli sociali, si rivelano per quel che sono, mostrando tutti i loro limiti, le loro contraddizioni, i loro disagi…
Ecco la recensione pubblicata su Famigliacristiana.it:
Il senso di Giuttari per la giustizia
Giovedì sera ho avuto il piacere di presentare Michele Giuttari nell’ambito della bella rassegna letteraria di Vigevano. Mi ha colpito molto, questo investigatore, ora in pensione, che dal 1997 è anche un seguitissimo scrittore.
Intanto qualche curiosità. Giuttari ora vive in Germania, in una casa affacciata sulla foresta nera. Scrive in un terrazzo contornato dal verde, dagli alberi e, immagino, da una meravigliosa quiete. Vende tantissimo in generale – in ben 100 Paesi – e negli Stati di lingua inglese in particolare. In Inghilterra, per dire, solo Larsson e Jo Nesbo vendono di più.
Naturalmente non sono mancate “rivelazioni” sulle inchieste e i casi giudiziari che lo hanno visto protagonista. Ha eccezionalmente accettato di parlare del mostro di Firenze: non lo fa volentieri, e anche questa volta ho notato una certa sofferenza nel rievocare questa tragica e incredibile vicenda. La sua ricostruzione del caso è stata da manuale. I presenti hanno potuto finalmente capire che cosa è accaduto, che cosa sia il famoso primo livello – quello degli esecutori materiali, i compagni di merende – e il famigerato secondo livello – quello dei mandanti. Impressionante la serie di tentatativi di allontanare un investigatore di razza come lui da Firenze o, comunque, dalle indagini.
Ma ciò che più di ogni altra cosa mi ha colpito, in Giuttari, è il profondo senso di giustizia e dello Stato. Mi è parso chiaro che la motivazione che, per tanti anni lo ha spinto a cercare i colpevoli dei crimini, è il desiderio di verità e il bisogno di dare giustizia alla vittime. Rispondendo a una mia domanda sulla fiction televisiva sul mostro di Firenze, ha detto più volte che gli era piaciuta perché aveva assunto il punto di vista della vittima e dato voce al suo dolore e alla sua domanda di verità e giustizia.
Avercene di uomini (e scrittori) così…
King Kong, la Bestia è sempre qui
Ho appena ricevuto King Kong nell’edizione illustrata di Anthony Browne (Donzelli), uno degli autori del genere più apprezzati e premiati al mondo. In una novantina di pagine, il romanzo di Devos W. Lovelace, da cui Edgar Wallace e Merian C. Cooper trassero la prima sceneggiatura, viene reinventato in una sintesi convincente e in un tratto che, mescolando toni espressionistici, cinematografici e naïf, appare efficace.
Celebre fu il film del 1933, a ridosso dell’uscita del testo. Dopo altre tre rivisitazioni, nel 2005 è uscita quella di Peter Jackson, con Naomi Watts nei panni della Bella (cui si riferisce il video sopra). Nell’interpretazione di Browne, la bella rivela una forte somiglianza con Marilyn Monroe…
Impressiona, a rileggere oggi questa fiaba – per nulla adatta ai bambini, infatti non l’ho inserita nella sezione “C’era una volta” – le molteplici letture possibili. La rivisitazione della favola della Bella e la Bestia; il tema della crisi economica (siamo all’epoca della grande depressione); la smania di fama e successo; il mito dell’esotico e del selvaggio; lo scontro fra civiltà; l’amore che non consoce limiti di sorta; fino al terrorismo…
D’altra parte, sappiamo che è destino dei classici il saper dire cose nuove a ogni epoca.
Raskolnikov oggi vaga per Kabul
Eco la recensione a Maledetto Dostoevskij di Atiq Rahimi pubblicata su Il nostro tempo. Di questo magnifico libro avevo già scritto nel blog.
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Di Atiq Rahimi, nato a Kabul nel 1962, in esilio politico a Parigi avevamo letto e ammirato Pietra di pazienza (Einaudi), vincitore del prestigioso Goncourt nel 2008, intensa meditazione sulla condizione femminile nel mondo afghano e islamico in generale. Non ci siamo perciò fatti sfuggire l’ultimo suo libro tradotto in italiano, sempre da Einaudi, anche perché chiamava in causa fin dal titolo uno degli autori più grandi della storia della letteratura di tutti i tempi: Maledetto Dostoevskij.
Ci troviamo a Kabul, in un tempo che potrebbe benissimo essere oggi, città in mano ai mujaheddin. Rassul è un giovane da poco tornato dall’Unione sovietica, dove ha studiato e conosciuto le opere di Dostoevskij. Sentendo di essere finito in una situazione insostenibile, senza futuro, decide di eliminare la vecchia usuraia che costringe la fidanzata Sophia a prostituirsi e a rubarle denaro. Proprio mentre sta per compiere il delitto e la scure comincia a scendere con forza dall’alto verso la testa della vecchia, gli viene in mente che sta ripetendo le gesta di Raskolnikov, il protagonista di Delitto e castigo, di Dostoevskij appunto. L’esitazione di un istante, non sufficiente a invertire il movimento di gravità – non solo fisica, ma anche morale – che non impedirà all’arma di abbattersi sulla vittima, uccidendola. C’è qualcosa di comico, e immensamente tragico, nella descrizione di questa scena. Ad ogni modo, Rassul non può più tornare indietro, lascia la stanza, dimenticando il denaro. Poi ha un ripensamento: tanto vale completare l’opera e rubare i soldi. Ma incrocia una donna misteriosa, avvolta in un burqa blu che la rende irriconoscibile, diretta nella casa della vecchia. E, dopo un po’, esce. Non per dirigersi alla polizia, ma per svanire nel nulla.
Rassul l’ha fatta franca. Nessuno l’ha visto, nessuno ha testimoniato contro di lui, nessuno l’accusa di nulla. Nemmeno quella donna misteriosa, che si è richiusa la porta dietro di sé… Lo scampato pericolo, però, anziché dargli sollievo, lo getta in una prostrazione che, di giorno in giorno, di pagina in pagina, diventa sempre più profonda e irredimibile. Capisce Rassul, sempre più chiaramente, che se le terribili guardie dei mujaheddin non verranno a chiedergli conto di quanto ha fatto, ci ha pensato qualcun altro a insinuargli il tarlo dell’inquietudine: la sua coscienza. Prova allora a narcotizzarla, in diversi modi, soprattutto rifugiandosi in questi luoghi pubblici dove si fuma l’hashish per dimenticare gli affanni della vita e di una città senza pace. Solo che quella maledetta coscienza – maledetta lei e Dostoevskij – gli impedisce di rivedere e incontrare la fidanzata. Anzi, una totale afasia lo coglie, impedendogli di pronunciare anche una sola parola. Insomma, il nostro Rassul comincia a escludersi da sé dalla comunità umana, sentendosi indegno.
Il protagonista cade in uno stato di torpore mentale e di inazione che gli impedisce persino di ricevere l’aiuto del generoso cugino e di darsi da fare per proteggere la madre e la sorella, rimaste sole dopo la morte del padre. È per lui l’inizio di un’odissea la cui meta finale dovrebbe essere una pace che, come Itaca per Ulisse, sembra irraggiungibile per il frapporsi di continui ostacoli e imprevisti. Il grande imprevisto, qui, come insegnava Dostoevskij, è la legge morale che qualcuno ha inciso nella nostra coscienza. Rassul, che è un giovane intelligente, lo sa e lentamente matura la decisione di consegnarsi alla giustizia per essere processato. Solo il giudizio della comunità degli uomini e l’espiazione di una giusta condanna, qualunque essa sia, gli potranno restituire la vita.
Qui ha inizio una parte straordinaria del romanzo, che consigliamo al lettore di leggere e meditare riga dopo riga. Avere giustizia a Kabul, dilaniata da lotte intestine e da una violenza smisurata, ben simboleggiata da una strana polvere che copre ogni cosa, non è impresa facile. Nella sua ricerca di giustizia contro di sé Rassul incontra due personaggi, con i quali dà vita a dialoghi memorabili, tanto densi e profondi da valere un trattato di diritto e di morale. Uno di questi è il comandante Parwaiz, un pezzo grosso della sicurezza nazionale. Questo ragazzo strano che parla di Dostoevskij e si vuole consegnare, distrutto da un conflitto interiore, mentre all’esterno divampa una battaglia feroce, lo incuriosisce. Il fatto che in un posto in cui ogni legge, ogni regola, siano esse civili o morali, sono saltate, un ragazzo voglia pagare per un delitto di cui nessuno lo accusa, smuove qualcosa nella sua coscienza (sì, questo è un romanzo di coscienze). E quando, in uno degli incontri, Rassul gli dirà che processarlo e condannarlo per quello ch’egli ha fatto è l’unica maniera per ristabilire un equilibrio, impedire il perpetuarsi della violenza e dell’ingiustizia, qualcosa nel potente comandante si incrinerà, gettando le premesse di decisioni radicali.
Non meno memorabile l’incontro di Rassul con il cancelliere in un tribunale anche materialmente devastato e a pezzi.Scherno e, alla lunga, irritazione sono la sua reazione alla pretesa di questo giovanotto di mettere a posto la coscienza. Non vedi, gli dice, in che condizioni versa la giustizia in questa città, in questo Paese? Non vedi che non è rimasto più nulla? E tu vorresti un processo regolare? Non ti posso proprio aiutare…
Maledetto Dostoevskij è uno straordinario romanzo sulla forza insopprimibile di quella che Kant chiamò «la legge morale dentro di noi», di quella che possiamo chiamare coscienza, anima, cuore, poco cambia. In quel luogo misterioso che abita dentro ogni uomo, è racchiuso un senso di giustizia che nemmeno i disastri della storia possono annichilire. Nel bisogno di giustizia di Rassul si scorge la volontà di ristabilire un ordine che appartiene alla natura più profonda dell’uomo. Un valore, questo, che giustifica anche il sacrificio di sé. In questo senso – ci spingiamo qui probabilmente oltre le intenzioni dell’autore, ma la storia che ha raccontato racchiude anche questo significato – ravvisiamo un richiamo alla parabola di Cristo o, se vogliamo, di chiunque accetti di pagare per tutti, in nome del bene comune, pur di non venire meno alla legge (dell’amore). E senza dubbio quella di Rassul è una parabola morale, metafisica e teologica.
Veladiano: Dio è impotente di fronte al male?
Chi ha letto La vita accanto (Einaudi) di Mariapia Veladiano aspettava la nuova prova della scrittrice, anche teologa, professoressa di Lettere. Si sentiva vibrare una voce nuova, in quel romanzo che aveva vinto il Calvino e sfiorato lo Strega. Storia “insolita” di una bambina brutta e della sua travagliata avventura in una società che fa dell’apparenza il criterio fondamentale di giudizio. Il tema del male nel mondo, che già li si affacciava, diventa centrale nel novo romanzo, Il tempo è un dio breve, in uscita sempre da Einaudi il 23 prossimo.
Lo scandalo del male, nella forma acuta del dolore innocente, ovvero il dolore che colpisce chi è senza colpa, un bambino, è qui centrale. A esso si intrecciano altri temi: l’amore e la sua forza redentrice, la libertà dell’uomo, la depressione, la famiglia, fonte di gioia ma anche di “condanna” laddove fa venir meno l’apporto affettivo… Un romanzo appassionante, introspettivo, che entra con delicatezza nelle pieghe della psiche umana e dà vita a intensi diaologhi teologici. Al momento, non svelo niente di più…
È sicuramente nata una nuova scrittrice – per questo bastava già La vita accanto -, ora possiamo forse dire che è nata una scrittrice cattolica, definizione da non assumere come etichetta limitante, bensì come indicazione di una letteratura che, senza rinunciare in nulla alla cura della scrittura e al fascino del racconto, sa affrontare le grandi questioni della vita. Fra le quali, quella di Dio, dimenticata da buon parte della letteratura odierna.
Se la memoria m’inganna (Vera letteratura: 2)
Vi avevo parlato di Maledetto Dostoevskij di Atiq Rahimi, definendolo un romanzo bellissimo, di quelli che ci ricordano che cos’è la vera letteratura. Ora, poiché non è facile imbattersi in libri che abbiano una statura del genere, non perdo l’occasione per inserire nella categoria “vera letteratura” (di qui il titolo di questo articolo) Il senso di una fine di Julian Barnes, vincitore del Man Booker Prize e pubblicato da Einaudi. Romanzo potente, vicino alla perfezione. Anche in questo caso la “prova orecchie” non lascia scampo.
Un’altra prova a cui sottopongo i romanzi che leggo è quella del tempo. Se una storia mi ritorna alla mente nei giorni successivi, una volta terminata la lettura, significa che mi ha lasciato un’eco profonda, che non è scivolato sulla superficie della mia coscienza, che ha inciso la mia sensibilità.
Il senso di una fine è la storia di un uomo mediocre, che mediocremente vorrebbe chiudere la sua parabola esistenziale. Qualcosa, dal passato, lo costringe a rivedere sotto un’altra luce se stesso e la vita fin lì vissuta. Un thriller piscologico sul valore dei ricordi, la forza mistificatrice del ricordo, la responsabilità individuale, il rapporto fra libertà e destino. Una gran, bella lettura.
Ecco la recensione che ho scritto per Il nostro tempo: http://www.ilnostrotempo.it/?q=node/280
Maledetto Dostoevskij! (Vera letteratura: 1)
Questa è letteratura, ragazzi. Avevo conosciuto Atiq Rahimi attraverso il suo Pietra di pazienza, con cui aveva vinto il prestigioso Goncourt nel 2008. Splendido. Ora ho letto il recente Maledetto Dostoevskij, pubblicato, come il precedente libro, da Einaudi. E la sensazione, a lettura ultimata, è che siamo in presenza della vera, grande letteratura. Sensazione che non capita di provare tanto spesso. Ci sono libri più o meno riusciti, più o meno buoni; e poi i grandi libri, quelli che fanno vivere la letteratura e rendono immortale il romanzo – a dispetto delle polemiche sulla sua fine.
Un ragazzo sta per ammazzare una vecchia usuraia che costringe la fidanzata a prostituirsi. E, ascia alla mano, sospesa in aria, gli viene in mente Delitto e castigo di Dostoevskij. Che non cesserà di maledire in tutto il romanzo, perché assumerà i connotati della coscienza, che gli conficca nel cuore un senso di colpa da cui non riuscirà a liberarsi se non sottoponendosi a giudizio.
Alcune pagine sono memorabili. Valga la prova”orecchie alle pagine”: ne ho fatte ben 22. Pagine che valgono come e più di un trattato di filosofia morale e di diritto.
Come? Non si fanno le orecchie alle pagine? Sappi che nemmeno io li ho fatti, fino a qualche anno fa, considerando il libro alla stregua di un oggetto sacro che, quasi immacolato, doveva passare dalle mie mani alla libreria. Invecchiando, ho cambiato idea. Un libro diventa tuo nella misura in cui lo vivi. E lasciare un segno materiale, quale l’orecchia, alla pagina, mi permette non solo di ritrovare facilmente alcuni passaggi o dialoghi, ma anche di tornare a leggermeli quando, in futuro, mi ritornerà alla mente la storia.
Su questo libro scriverò una recensione per Il nostro tempo.
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