2 Ott 2012

La differenza… fa la differenza

Una bella immagine tratta da Annitapoz’s Weblog.

 

Riporto qui  di seguito il breve intervento con cui ho introdotto la relazione di Vinicio Ongini sulla scuola multiculturale al Festival del diritto di Piacenza.

«Per parlare di scuola multiculturale, il primo passo da fare è, forse, quello di essere consapevoli che essa è una realtà. Non stiamo parlando di un’ipotesi che riguarda il futuro, bensì di un fenomeno che interessa molte città italiane. Vale la pena ricordarlo, all’inizio di questo incontro, perché in alcuni ambiente sembra ancora persistere un’errata percezione della realtà.

Ricordiamo allora qualche numero. Lo desumiamo dal rapporto del Ministero dell’istruzione presentato in occasione del nuovo anno scolastico: quindi dati molto freschi e recenti.

Gli studenti stranieri sono quasi 756.000. Un numero che va interpretato: il 44,2 per cento di questi ragazzi è nato in Italia: si può quindi presumere, per limitarci alla considerazione più immediata, che parlino la nostra lingua. Un secondo elemento: la tendenza è all’aumento, il che significa che non ci stiamo occupando di un fenomeno estemporaneo, passeggero, ma che, al contrario, si rafforzerà negli anni a venire.

Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono le Regioni che più intensamente sono toccate da questa realtà. Un dossier statistico sull’immigrazione della Caritas, datato 2011, poneva la Regione in cui ci troviamo, l’Emilia Romagna, al primo posto in Italia per l’incidenza percentuale degli studenti stranieri nelle scuole: 82.535 studenti, il 14 per cento del totale (era il 13,5 per cento nel 2009).

 Se all’Emilia Romagna spetta il primato per l’incidenza degli studenti stranieri, alla Lombardia spetta quello del numero in valori assoluti: il 24,3 per cento degli studenti stranieri in Italia è iscritto in Lombardia (anche qui dati del Miur). Al secondo posto il Veneto, con l’11,9 per cento.

Sempre in Veneto, sono state concesse due deroghe al superamento del tetto del 30 percento di presenza di studenti stranieri previsto dalla legge. Si tratta di due scuole elementari, una nel Veneziano e una nel Padovano, dove la percentuale si attesta fra il 40 e il 50 per cento. Interessante il commento della direttrice dell’Ufficio scolastico regionale: queste percentuali non devono preoccupare – ha detto – perché le deroghe sono state concesse dopo aver verificato che il 42 per cento degli studenti stranieri iscritto è nato in Italia, cioè parlano la nostra lingua.

Per completare questa fotografia della scuola multietnica in Italia, permettetemi di citare due storie.

La prima riguarda la scuola primaria più multietnica d’Italia, quella in via Paravia, zona San Siro di Milano. Ricorderete che un anno fa la scuola non aveva ottenuto l’autorizzazione a formare una prima, perché si superava il tetto del 30 per cento (17 alunni su 19). Quest’anno invece si è partiti, anche se i numeri non sono così diversi: 3 italiani, 18 stranieri, 14 dei quali nati in Italia. Motivazione, fornita da una consigliera comunale: l’anno scorso ci si era fermati alla superficie, cioè ai cognomi, ignorando che gran parte di loro non solo è nata in Italia, ma aveva anche già frequentato la scuola materna. E quindi parla italiano.

La seconda storia mi riporta nella mia zona d’origine, il Vicentino, precisamente a Villaganzerla: l’insegnante di religione, un certo Giuseppe Prisco, ha adottato alla primaria Zanella il metodo della “Regola d’oro delle altre religioni”: semplicemente, insegna le basi di tutte le religioni, coinvolgendo colleghi e famiglie. Il progetto ha funzionato così bene che la festa di fine d’anno ha ricalcato questo modello multiculturale ed è diventata un cantiere aperto di confronto di usi e tradizioni.

Mi avvio a concludere, con alcune riflessioni.

La scuola multietnica è, come abbiamo visto, già ora una realtà, destinata a crescere nei numeri.

Una prima questione: gli insegnanti sono preparati a raccogliere questa sfida? Un’indagine della Fondazione Agnelli ha fatto emergere che il 50 per cento degli insegnanti, uno su due, giudica inadeguata la propria preparazione alla gestione di classi eterogenee: cioè con disabili o stranieri. La sensazione è che l’insegnante sia lasciato un po’ da solo.

Il ruolo dei mediatori culturali: laddove esiste un problema di lingua, o laddove le differenze culturali sono marcate e non ancora aperte al confronto, servono figure capaci di avvicinare lo straniero al nostro mondo. Quanti sono i mediatori culturali? Soprattutto, sono in numero adeguato o sono stati falcidiati dai tagli?

C’è da chiedersi anche: le famiglie sono preparate? Finché il fenomeno riguarda altri, finché è lontano, è anche facile essere tolleranti e aperti. Ma se nostro figlio si trovasse in una classe con molti stranieri, non avremmo la preoccupazione che venisse penalizzato? Come bisogna rispondere alle ansie di questo genitore?

I media, spesso fomentati da alcune prese di posizione dei politici, tendono a dare a volte rappresentazioni drammatiche, estreme di questi fenomeni. In questo intervento ho rammentato in più punti come non si faccia distinzione fra stranieri nati in Italia e che parlano italiano e stranieri arrivati da qualche mese che non conoscono la nostra lingua. Ma la differenza è sostanziale.

Un’ultima questione: la scuola è, oggettivamente, il luogo in cui avviene il primo contatto fra un bambini e la comunità, anzi, fra il bambino e la sua famiglia e la comunità. È il terreno su cui si gioca la prima e forse decisiva partita dell’integrazione, con tutti gli effetti positivi che questa parola implica. Per riprendere il tema di questa edizione del festival del diritto, la scuola è il luogo in cui si costruisce la solidarietà oppure – se al posto dell’integrazione c’è un’esperienza di rifiuto – si pongono le premesse del conflitto. Qui si decide il nostro futuro. Se è così, non è necessario moltiplicare gli sforzi affinché questa occasione non venga sprecata?».

2 Comments

  • MAh, ho avuto una discussione con l’insegnante di religione alle elementari, cercando una quadra fra le esigenze di tutti. la signora ribadiva questa cosa che in realtà si fa storia delle religioni in generale, però sfogliando i libri dei bimbi vedo soprattutto Mosè, Aronne, i Maccabei ecc, senza inoltre una distinzione chiara tra storia oggettiva del popolo ebraico (archeologia, storiografia, un minimo di ciritca dei testi) e la loro storia religiosa (ciò che è scritto nella Bibbia). un discorso complicato. quanto ai dati su quanti in italia oggi si avvalgono della rinuncia all’ora di religione (io parlo da persona incerta che ogni volta è combattuta in un senso o nell’altro), essi sono ampiamente viziati da un fatto. Ad essa non c’è alternativa, se non in certi casi stazionare in corridoio. Infine ci sarebbe un tema ancora più generale su cui mi piacerebbe un tuo commento. Ho avuto discussioni con varie persone sul fatto che l’educazione cattolica (scuole cattoliche, catechismo, ora di religione) sia importante per i tuoi figli per legarli alla propria cultura e alle proprie radici. Quindi al limiti, se la tua fede è tiepida, è giusto comunque avviarli a questi insegnamenti perchè toglieresti loro qualcosa della loro identità. Io lo trovo un po’ riduttivo. Lo trovo riduttivo per un cattolico convinto della propria fede. nel senso:
    se essere cristiani è, come credo dovrebbe essere, vivere secondo un pensiero forte che da senso a tutta la tua vita (perchè siamo qui, quali sono le direttive secondo cui dobbiamo vivere con noi stessi e il prossimo, cosa ci aspetta dopo, cosa è avvenuto dei nostri cari che sono morti, la storia ha avuto il suo culmine nella discesa in terra del figlio di dio ecc…) definire il cristianesimo un fatto culturale a cui è legato il proprio popolo mi sembra riduttivo. cultura è la lingua, la storia, la dieta, fatti sociali. La fede non dovrebbe essere prima di tutto un vissuto personale?

    • Sono sostanzialmente d’accordo con te sull’educazione religiosa motivata da una vaga appartenenza culturale. Per la semplice ragione che la fede è molto di più. Tale atteggiamento tende a ridurre la religione a pratica esteriore, anziché farne una scelta interiore che implica azioni coerenti. Insomma, un atteggiamento da farisei. Non mi sembra poi che i ragazzi, appena arrivati all’età delle medie, sentano il bisogno di mantenere questa facciata religiosa per non sentirsi esclusi. A riprova del fatto che si tratta di atteggiamenti puramente esteriori.

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Chi sono

Sono nato a Vicenza nel 1968. Mi sono laureato in Filosofia a Padova con una tesi su Martin Heidegger, poi ho frequentato il Biennio di giornalismo dell’Ifg di Milano. Sono caporedattore e responsabile del settore Cultura e spettacoli di Famiglia Cristiana. Mi sto occupando di Filosofia per bambini e per comunità (P4C). [leggi tutto…]

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