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Marco Martinelli porta “Aristofane a Scampia”
Ho appena finito di leggere un libro bello e commovente che, tra le altre cose, può a mio avviso interessare chi si occupa di Philosohy for Children (P4C). Si tratta di Aristofane a Scampia di Marco Martinelli (Ponte alle Grazie).
Molto brevemente, dirò che l’autore, regista drammaturgo e attore fra i più interessanti della scena teatrale contemporanea, ha fondato 25 anni fa a Ravenna la non-scuola, esportandola poi in tutta Italia – con una predilezione per i quartieri a rischio, come Scampia a Napoli – e addirittura nel mondo.
La non-scuola è un modo per coinvolgere attivamente i ragazzi (di solito fra i 14 e i 18 anni) attraverso il teatro, di renderli protagonisti con la recitazione. Avviene una sorta di miracoloso sfregamento fra la generazione i-phone e i grandi classici del teatro. Con esiti sorprendenti a dir poco. Per saperne di più, leggete il libro e, prossimamente sa Famiglia Cristiana, l’intervista a Martinelli.
Qui voglio solo sottolineare un aspetto del metodo della non-scuola assai interessante in sé e per le affinità, forse non immediate ma profonde, con il metodo della Philosophy for Children.
Martinelli spiega che accostare i giovani di oggi ai classici non è ovviamente un’operazione facile. Ci vogliono intelligenza e furbizia perché l’incontro dia buoni frutti. Tale intelligenza e furbizia si realizzano nel trovare, al di là del testo, oltre le parole ufficiali del testo, quel fuoco che le he generate, quel “rovello”, lo definisce, da cui è scaturito il capolavoro. Bisogna insomma fare una sorta di immersione dentro e sotto le parole per scovare i sentimenti, la scintilla originaria che si è impossessata del loro autore e lo ha “costretto” a creare quell’opera. Il lavoro drammaturgico della non scuola si risolve in una indagine comunitaria sul senso autentico di quelle parole, in modo da farle rivivere in tutta la loro potenza re-interpretandole. Ecco allora che l’improvvisazione e l’uso dei dialetti non solo è consentita, ma auspicata.
Ecco le parole di Martinelli, che mi permetto di riportare.
“La non-scuola non si chiamava così, ma esisteva già dal ’91, quando alle Albe venne assegnata la direzione del Rasi. Marco e Maurizio Lupinelli cominciarono a tenere dei laboratori teatrali nei licei. All’inizio vi parteciparono solo quaranta studenti, che poi per contagio, anno dopo anno, divennero dieci volte tanti, coinvolgendo tutte le scuole della città.
Non andavamo a insegnare. Il teatro non si insegna. Andavamo a giocare, a sudare insieme. Come giocano i bambini su un campetto da calcio, senza schemi né divise, per il puro piacere del gioco, come capita ormai di vederli solamente in Africa, a piedi nudi sulla sabbia, o nel sud d’Italia: al nord è raro, i più sono irrigimentati a copiare il calcio dei “grandi”, soldi e televisione. In quel piacere ci sono una purezza e un sentimento del mondo che nessun campionato miliardario può dare. La felicità del corpo vivo, la corsa, le cadute, la terra sotto i piedi, il sole, i corpi accaldati dei compagni, l’essere insieme, orda, squadra, coro, comunità, la sfera-mondo che volteggia e per magia finisce dentro la rete.
Scuola e teatro sono stranieri l’uno all’altra, e il loro accoppiamento è naturalmente mostruoso. Il teatro è una palestra di umanità selvatica e ribaltata, di eccessi e misura, dove si diventa quello che non si è; la scuola è il grande teatro della gerarchia e dell’imparare per tempo a essere società. Quando Cristina Ventrucci parlò di non-scuola, la definizione fu accolta senza discussioni. Il gioco è ancora oggi l’amorevole massacro della Tradizione. Non “mettere in scena”, ma “mettere in vita” i testi antichi: resuscitare Aristofane, non recitarlo. La tecnica della resurrezione parte dal fare a pezzi, disossare.
Adolescenti e Tradizione: i Senza Parole e la Biblioteca. Qui c’è un lampo, due legni che si sfregano. Prendi un testo, e guardalo sotto: là sotto, sotto le parole, c’è qualcosa che le parole da sole non dicono. Là sotto c’è il rovello che lo ha generato. Ci restano le parole, mentre quel rovello viene dimenticato. Se non sai penetrare quel sotto, quella luce giù in basso, le parole restano buie. Il testo cela un segreto che può accendere la Vita, che l’autore (il vivente, non il cadaverino del museo!) ha sapientemente nascosto secoli fa nelle parole della favola: la non-scuola mette in relazione quel segreto e gli adolescenti, proprio quelli, quelli e non altri, quelle facce, quel dialetto ringhiato tra i denti, quei sospiri, quel linguaggio di gesti, quei sogni, quei fumetti. Per realizzare l’incontro c’è bisogno, in una prima fase, di svuotare il testo, perché i dialoghi sono all’inizio un impedimento autoritario che va spazzato via. Fatto a pezzi il monumento, si riparte dal gioco d’improvvisazione che i teatranti propongono agli adolescenti, gioco che consiste nel dare nuova vita alle strutture drammaturgiche del testo. L’improvvisazione crea una partitura di frasi, di gesti, di musiche, sulla quale sarà possibile innestare, in un secondo momento, le parole dell’autore, e non tutte, solo quelle che servono. E sarà una sorpresa accorgersi che le parole rifiutate all’inizio, una volta creato un campo di verità sul quale trapiantarle, diventeranno splendenti.
Andare verso la luce, là sotto, al sotto che illumina. E un controsenso, ma non per i patafisici. La luce è sotto? Nel buio, come le radici sottoterra? Sono adolescenti, sono dei nessuno. Per questo traboccano di genio! La Tradizione non dice un bel nulla a questi nessuno, che prima la guardano con sospetto poi le fanno l’onore di rimetterla in vita, la gratificano di un amplesso: la non-scuola gode a vedere l’impatto devastante e fecondo tra i morti e i vivi.
Le “vite immaginarie” degli autori esibiscono spesso il rovello e le battaglie che hanno partorito le loro favole teatrali. Immaginarsi gli autori da adolescenti, immaginarseli quando erano dei nessuno. Aristofane diciassettenne che scrive la sua prima commedia contro la guerra. Molière che abbandona la casa paterna e fa la gavetta in provincia. Rosvita che arrossisce e si ispira alle pagine di Terenzio. Büchner rivoluzionario fallito. Goldoni che scappa sulla barca dei comici, Bruno che scappa dal convento, non respira.
Bando alla psicologia! Nella non-scuola si recita come marionette, le fantasie sono puri moti fisici, i sentimenti sono impulsi teatrali.
La non-scuola è il campo da calcio di una squadra che gioca per passione, ignora il denaro e la gloria. Mescola alla luce del sole adolescenti e teatranti, i quali, in quella purezza-impura, trovano motivi di rigenerazione. Per quei nessuno, per i Senza Parole, i teatranti sono a loro volta dei nessuno che si divertono.
Le tecniche sono nel gioco, incarnate. Abitano il fare. I ragazzi le assumono come regole necessarie, nel divertimento e nella fatica che costa “saper giocare bene”. E il giocare porta alla partita! Alla partita con il pubblico, allo stesso tempo avversario e amante, turbolento come nell’Atene di Aristofane. Ogni gruppo conclude il proprio lavoro con uno spettacolo, una serata unica: il Rasi si riempie per la “prima” e “ultima”, non si danno repliche, è un rito di iniziazione. I 400 studenti che ogni anno salgono sul palco, i 5.000 che ogni anno arrivano per applaudire, chiamar per nome, sbeffeggiare, osannare, rappresentano insieme l’energia della polis (i “poli”, i “molti”) che irrompe in teatro. E una presenza sporca, volgare, è “volgo” che invade il teatro, dentro e fuori la scena. L’esito è barbaro e fertile. Le oscenità di Aristofane prendono senso sulle bocche dei quindicenni, sembrano scritte ieri, anzi adesso, e ci ricordano che quei testi, inascoltabili sui palcoscenici degli impiegati puntuali alla loro battuta, sono testi dell’infanzia del teatro, e che per restituirli all’oggi, lasciandone intatta la carica ludica e trasgressiva, bisogna essere infanzia. I satiri di Sofocle vengono impugnati senza bisogno di filologia, partendo dalla propria condizione di satiri di periferia. L’erotismo delle coppie di Marivaux e Shakespeare si incontra con il timido furore amoroso di quelle età di mezzo […].” (Marco Martinelli e Ermanna Montanari, L’Apocalisse del molto comune, in Jarry 2000, Ubulibri, 2000).
Trovo questa descrizione del metodo della non-scuola straordinaria.
E dove vedo le affinità con la Philosohy for Children?
Ad esempio nel fatto che protagonista è sempre una comunità. Nel fatto che tale comunità si configura come comunità di ricerca: nella P4C tenta di rispondere alle domande con gli strumenti della logica e della filosofia, nella non-scuola con il linguaggio del teatro. E quel cercare il rovello originario dell’autore del classico non assomiglia all’affidarsi al Pensiero, al farsi guidare da esso nella ricerca della verità? E in quello scavare sotto e oltre le parole non si ripete lo sforzo inesausto della filosofia e della P4C di interrogare il reale oltre le apparenze e i pre-giudizi consolidati?
Per non dire poi del fatto che protagonisti sono i ragazzi con le loro forze; che non esiste un insegnante che trasmette delle verità o anche solo dei contenuti, ma un “facilitatore” che compie egli stesso questo tragitto insieme ai ragazzi; che il rispetto di una serie di regole di convivenza democratica diventa spontaneamente necessario per svolgere entrambe le attività; che l’individuo mette al servizio della collettività il suo talento personale, in nome di un progetto comune…
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