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Martha Nussbaum, l’etica per la società di oggi
Apprendo che il prossimo 14 dicembre Martha Nussbaum sosterrà all’Università di Bologna la lettura “Perché le emozioni contano in politica” per il Mulino. Ho dedicato due articoli per Il nostro tempo, in passato, al pensiero della filosofa americana, che spesso riflette su temi di natura etica, centrali nelle società contemporanee. Li riporto quo sotto.
Il primo è su Libertà di coscienza e religione, il secondo su Non per profitto.
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Sul complesso e delicato tema di come la libertà religiosa possa e debba calarsi all’interno del quadro costituzionale e legislativo di uno Stato è uscito un saggio, breve ma denso, che merita di essere preso in considerazione. Si tratta di «Libertà di coscienza e religione» di Martha C. Nussbaum (Il Mulino, pp. 84, euro 10,00). Insegnante di Diritto ed etica all’Università di Chicago, la fi losofa statunitense, convertitasi all’ebraismo, è autrice di importanti studi sull’etica, sulla giustizia sociale, sul multiculturalismo e sulle pari opportunità fra uomo e donna. La fi losofa parte rievocando il senso originario della Festa del ringraziamento: i padri fondatori degli Stati Uniti, in fuga dalla repressione religiosa in patria, vollero che non ci fosse più alcuna intolleranza nel nuovo mondo. Così escogitarono un ordine costituzionale che garantisse la libertà religiosa, rifi utando ogni confessione dominante. Questo diritto fondamentale dell’uomo – la libertà di coscienza e di religione – è oggi minacciato da più parti: «Tutte le democrazie moderne vivono attualmente un clima di paura, e la crescente diversità religiosa è uno dei fattori che suscita il timore più intenso», scrive la fi losofa. Accadde negli Stati Uniti nel XX secolo sotto la spinta dell’immigrazione cattolica, quando alcuni sostennero che cattolicesimo e democrazia erano inconciliabili. Accade oggi nei confronti dell’islam e dei musulmani. «In queste pagine sosterrò che l’unico antidoto efficace contro quella paura, e contro l’ingiusto comportamento che essa ispira, risiede in un rinnovato impegno a sostegno della lunga tradizione di eguale rispetto per la coscienza, che ha giocato un ruolo formativo nelle istituzioni europee e in quelle americane, ma che viene più spesso tradita che rispettata» (corsivo nostro). Per avere eguale libertà di coscienza – incalza la Nussbaum – «è necessario dare ai cittadini ampio spazio per perseguire i loro impegni di coscienza, anche se questo comporta l’esonero da alcune leggi generali». In altre parole, solo ciò che appartiene all’interesse imperativo, sensibile, vitale dello Stato
(in sostanza questioni di sicurezza nazionale o di incolumità delle persone) dovrebbe giustifi care una eccezionale riduzione di tale spazio. In secondo luogo, «la libertà di coscienza è incompatibile con un qualsiasi genere di istituzionalizzazione religiosa», cioè lo Stato non deve riconoscere un’ortodossia religiosa, scegliere una religione di Stato, stabilendo che quella e non altre defi nisce un popolo in quanto nazione. Un riconoscimento del genere dividerebbe i cittadini in due categorie, chi sta dentro e chi sta fuori, compromettendo l’istanza di eguaglianza. L’orientamento di pensiero riassunto nelle righe precedenti infl uenzò profondamente le idee dei padri fondatori della Costituzione degli Stati Uniti e approdò a questo testo:«Il Congresso non potrà emanare alcuna legge a favore del riconoscimento ufficiale di qualsiasi religione, o per proibirne il libero esercizio» (primo emendamento). Che cosa occorre per difendere la libertà religiosa in modo davvero imparziale? Secondo Locke due sole cose: leggi che non penalizzino le pratiche religiose e che prevedano le stesse condizioni per tutti i cittadini nelle questioni che hanno a che fare con la religione. Il che signifi ca che non è necessario concedere particolari deroghe alle minoranze: se non ubbidiscono a una norma per obiezione, dovranno scontare la pena stabilita. Tale punto di vista è giudicato insoddisfacente per un’altra tradizione di pensiero, secondo la quale, essendo le leggi espressione della maggioranza (dei suoi costumi, delle sue idee, della sua religione), non tutelano abbastanza le minoranze, per le quali è giusto prevedere deroghe speciali, affinché la loro fede possa realmente manifestarsi, purché non tocchino gli interessi vitali di una nazione. Ovviamente, la Nussbaum sposa questa seconda scuola filosofi ca, perché, a suo giudizio, risponde
maggiormente all’esigenza fondamentale dell’eguale rispetto nei confronti di ogni religione. Proprio tale tradizione subisce oggi un attacco da più parti. Dagli «ortodossisti», innanzi tutto, per i quali «occorre affi darsi a un’ortodossia, sostenere la preminenza di una tradizione religiosa, per godere dell’ordine e della sicurezza pubblica». Bisogna stabilire con chiarezza ciò che un popolo è, quindi anche qual è la sua religione, quali sono i suoi valori. Tale credo, secondo la filosofa, non è accettabile nemmeno nella sua versione più moderata, secondo cui va detto chi siamo e in che cosa crediamo, dopodiché chi è diverso potrà essere accettato e potrà vivere fra noi in pace. «Ciò che è sbagliato in questo approccio è che non tratta le persone come eguali. Chiede ad alcuni di subordinare i propri obblighi di coscienza a quelli di altri». Anche questo ortodossismo più benevolo può danneggiare le minoranze, orientando
i fondi pubblici per fi nanziere le scuole solo di una particolare confessione, ad esempio, o ammettendo l’uso di criteri religiosi per le cariche pubbliche. Insomma, non tutti i cittadini entrerebbero nello spazio pubblico a eguali condizioni. Un altro avversario della visione a cui si richiama l’autrice è l’«antireligioso». Costui pensa che «tutte le religioni dovrebbero essere disapprovate in ambito pubblico» e che costruiremmo democrazie migliori se scoraggiassimo la religione, basandoci sulla razionalità laica e scientifi ca. Uno dei primieffetti di questa posizione, rileva la Nussbaum, potrebbe essere che vengono tollerate discriminazioni nei confronti della minoranze, meno protette delle maggioranze. In secondo luogo, la cultura antireligiosa non è incline a concedere deroghe agli individui per motivi di coscienza. Infine, non sembra compatibile con un impegno autentico a favore dell’eguale rispetto, fondandosi sul presupposto della superiorità del razionalismo illuminista e scientista sulle fedi. Che cosa abbiamo imparato da questo denso saggio? L’atteggiamento nei confronti dei fedeli e delle fedi deve essere di eguale rispetto: tutti e tutte hanno gli stessi diritti di esistere e di avere uno spazio pubblico in cui manifestarsi, anche a costo di qualche deroga (ad esempio, non si può imporre a un cittadino di lavorare in un giorno che gli è proibito dalla sua religione). Quindi non è accettabile una religione di Stato. Al tempo stesso, negare o semplicemente scoraggiare l’espressione della religiosità è assurdo e ingiusto. Fin qui, seguiamo bene la Nussbaum. È chiaro tuttavia che la sua idea di libertà religiosa, proprio in nome del valore assoluto dell’eguale rispetto, giudica negativamente ogni forma di «occupazione dello spazio pubblico» da parte di una confessione. Ad esempio, giudica negativamente i fi nanziamenti alla scuola cattolica o l’affissione dei crocifi ssi nei luoghi pubblici. E qui sorge qualche dubbio. Perché si accetta serenamente che in un Paese si studi la letteratura nazionale e non quella straniera, mentre non si accetta alcun richiamo “pubblico” a un’identità religiosa? Si può cioè ignorare la tradizione religiosa e culturale di una società, le sue radici, senza con ciò «violare l’anima» (espressione usata dalla stessa Nussbaum) di un popolo? È davvero impossibile che il richiamo a un’identità oggettivamente esistente non si traduca in un’offesa alle minoranze? Tali domande diventano ancora più pressanti allorché assumiamo il caso dell’affissione dei crocifi ssi in luoghi pubblici: perché un simbolo di amore e di solidarietà, anzi il simbolo dell’amore e della solidarietà per antonomasia, offenderebbe qualcuno e violerebbe la sua anima?
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Sostiene Martha Nussbaum, fi losofa americana, insegnante di Legge ed Etica all’Università di Chicago, che ci troviamo nel mezzo di una crisi di proporzioni inedite e di portata globale. L’allusione non è alla recessione economica, bensì a un cancro che, lavorando silenzioso, potrebbe rivelarsi dannoso per la democrazia: la crisi mondiale dell’istruzione. L’idea di fondo è che le nazioni sono sempre più attratte dall’idea della crescita economica e del profi tto e, coerentemente, reimpostano l’istruzione in base a criteri che «stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i Paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé, criticare la tradizione e comprendere il signifi cato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone. Il futuro delle democrazie di tutto il mondo è appeso a un filo». Che cosa sta accadendo? Che «gli studi umanistici e artistici vengono ridimensionati, nell’istruzione primaria e secondaria come in quella universitaria, praticamente in ogni Paese del mondo. Visti dai politici come fronzoli superflui, in un’epoca in cui le nazioni devono tagliare tutto ciò che pare non serva a restare competitivi sul mercato globale, essi stanno rapidamente sparendo dai programmi di studio, così come dalle teste e dai cuori di genitori e allievi». La citazione è tratta da «Non per profi tto» (Il Mulino, pp. 160, euro 14,00) della pensatrice americana, con un sottotitolo quanto mai signifi cativo: «Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica», un testo che raccomandiamo ai politici, a chi ha responsabilità nelle istituzioni scolastiche, ai genitori e ai giovani. Due premesse sono necessarie prima di addentrarci nei contenuti della denuncia della Nussbaum. La prima è che, benché la casistica su cui si appoggia provenga soprattutto da Stati Uniti e India, i riferimenti all’Europa sono comunque frequenti e, in ogni caso, il senso del suo discorso è perfettamente estensibile al nostro continente e all’Italia. La seconda è che la filosofa non ha nulla contro le discipline scientifiche e tecniche, che peraltro non corrono alcun pericolo in questa fase storica. La sua è un’analisi equilibrata: «Non c’è nulla da obiettare su una buona istruzione tecnico-scientifica… La mia preoccupazione è che altre capacità, altrettanto importanti, stiano correndo il rischio di sparire nel vortice della concorrenza: capacità essenziali per la salute di qualsiasi democrazia al suo interno e per la creazione di una cultura mondiale in grado di affrontare con competenza i più urgenti problemi del pianeta». Il punto decisivo è che tali capacità sono associate agli studi umanistici e artistici: «La capacità di pensare criticamente; la capacità di trascendere i localismi e di affrontare i problemi mondiali “come cittadini del mondo”; e, infi ne, la capacità di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell’altro». Il modello di istruzione oggi dominante è fondato sull’identificazione fra progresso e crescita del Prodotto interno lordo. Anche a prescindere dal fatto che tale modello è oggi fortemente messo in discussione (la produzione di armi contribuisce al Pil, mentre tutti i servizi alla persona sono conteggiati come costi…), produrre crescita economica non significa produrre democrazia, «né una popolazione sana, impegnata ed istruita in seno alla quale le opportunità di una buona vita siano alla portata di tutte le classi sociali». Contrariamente a quanto sostengono i fautori di una formazione fi nalizzata al profitto, il Pil può crescere senza che venga garantita una buona istruzione a tutta la popolazione. Il suo obiettivo è la formazione di un numero, anche limitato, di tecnici in grado di svolgere determinate funzioni. Del tutto estranee al suo interesse sono invece le caratteristiche di una formazione finalizzata alla crescita della persona e allo sviluppo della democrazia: la capacità di ragionare su problemi politici che riguardano il proprio Paese senza delegare alla tradizione o all’autorità; la capacità di riconoscere nei concittadini persone con pari diritti e dignità, al di là di razza, religione, genere e orientamento sessuale; la capacità di comprendere il pensiero dell’altro; la capacità di giudicare i politici e le loro azioni, in base a precise informazioni e con consapevolezza; la capacità di vedere la propria nazione come parte di un ordine mondiale complesso. Tutte queste ed altre capacità affini, vitali per la costruzione del buon cittadino e della democrazia, sono spesso osteggiate e temute dai fautori di un modello di istruzione teso unicamente alla crescita economica e al profi tto. Al contrario, esse sono l’essenza stessa del sapere umanistico: la letteratura, la fi losofi a, l’arte, la musica, il teatro, la danza… Ogni essere umano – sostiene la Nussbaum – è teatro di uno scontro fra la ricerca della prevaricazione e il rispetto per l’altro. Come fanno le persone a diventare capaci di rispetto? E cosa, invece, le rende inclini alla prevaricazione? Decisive sono le famiglie di origine e la società in cui siamo inseriti, ma altrettanto centrale è il ruolo dell’educazione. Se scegliamo un sistema educativo il cui obiettivo primario, se non unico, è la crescita economica, allora rischiamo di estromettere dai piani di studio quelle materie che aiutano lo sviluppo del pensiero critico, dell’empatia, dell’immaginazione. Opteremo per un modello pedagogico nel quale l’alunno è un ricettacolo passivo di nozioni utili ad assolvere funzioni e professioni necessarie al mercato del lavoro. Per questa via, si formeranno cittadini passivi, acritici, privi di un pensiero autonomo, incapaci di immedesimarsi nell’altro. Soprattutto nella società globalizzata e interdipendente di oggi, in cui Paesi e popoli sono esposti continuamente al diverso, è necessario essere dotati di strumenti che consentano di capire l’altro, di dialogare con lui, anziché considerarlo un nemico. La denuncia della Nussbaum merita di essere ascoltata e presa in considerazione con la massima urgenza. Quali cittadini vogliamo formare? Vogliamo che i nostri fi gli diventino macchine in grado di assolvere, anche egregiamente, alcune funzioni o teste pensanti e capaci di empatia? In base alla risposta a queste domande, dovremo scegliere il metodo pedagogico e i contenuti dell’istruzione da dare ai giovani.
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