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Recalcati: Telemaco è il figlio giusto
Il padre è evaporato. Eppure, la domanda di paternità (legge, autorità, norma) resta ed è forte.
Si badi bene: il padre non è morto provvisoriamente, con la conseguenza che potrebbe, un domani risorgere. È tramontato definitivamente, almeno nella forma della Legge-Ideale assoluto. Eppure del padre si ha bisogno. Che fare? Che cosa resta del padre? E come coglierlo?
Non risponde alla domanda Edipo, in opposizione violenta al padre. E neppure Narciso, così di moda e diffuso oggi, tutto preso da sé stesso.
La via potrebbe additarla Telemaco: egli guarda il mare, in attesa del padre. E dal mare arriva sempre qualcosa. Non arriverà il padre-re, il padre-ideale, il padre-eroe, bensì un padre che combatterà per riconquistare il suo regno. Assieme al figlio. La nuova possibile allenza fra padre e il figlio si configura secondo questa dialettica: la testimonianza del padre (non più eroe, ma testimone, appunto) e la capacità del figlio di acquisire l’eredità. Che non è un Regno, non è la mera trasmissione di un bene che avviene una volta per tutte. È, invece, una dinamica di acquisizione.
Il saggio di Massimo Recalcati Il complesso di Telemaco (Feltrinelli), sviluppando e portando a compimento la riflessione già avviata sulla morte del padre e sul desiderio, è – a mio avviso – uno di quei testi che segna un passaggio nella storia del pensiero.
Perché non possiamo non dirci stupidi
Senza offesa per nessuno, il titolo mi sembra la migliore sintesi di un saggio stimolante, benché non di facilissima lettura, che ho appena finito. Si tratta di Stupidità del semiologo Gianfranco Marrone (Bompiani). Un’indagine tutt’altro che scontata sulla cretineria, in cui si visitano autori come Barthes, Flaubert, Musil, Eco, Sciascia, Adorno…
Ecco, in breve, quel che mi è rimasto da questa lettura:
– si tende a pensare che lo stupido sia sempre l’altro
– invece lo siamo tutti, almeno in qualche campo, in qualche contesto (quello della stupidità parziale è una bella intuizione dell’autore)
– anziché contrapposte, stupidità e razionalità sono in un rapporto di continuo scambio, al centro di un’incessante oscillazione e inquinamento reciproco
– la stupidità è quindi insuperabile, l’unico atteggiamento possibile per non farsene dominare è quella ragionevolezza che limitatamente ne subisce il fascino, ma senza farsene soggiogare e imbrigliare definitivamente
– la stupidità sfugge a qualsiasi definizione, ma è certo che il fanatismo e la “mancata evoluzione” (Adorno), ovvero l’interruzione della crescita, della trasformazione di se stessi, la chiusura entro uno schema la evocano fortemente
La bellezza dell’abbastanza
Abbastanza è un concetto stimolante e suggestivo. Che cosa significa “abbastanza” (enough in inglese)? E che cosa indica, soprattutto? Va da sé che solo ciascun individuo può stabilire che cosa è abbastanza per sé: ciò che è abbastanza per me può essere troppo o troppo poco per te, tanto nella vita spirituale e sentimentale, quanto in quella materiale.
In questi anni la categoria dell’abbastanza ha però vissuto un ritorno impetuoso: si parla, ad esempio, di “economia dell’abbastanza”, in opposizione alle tendenze consumistiche e alla logica che più si ha meglio è. Uno degli effetti della crisi è stato proprio quello di indurci a riscoprire il valore delle cose, rendendoci consapevoli che, a volte, aspiriamo al superfluo.
In quest’ottica segnalo l’uscita da Mondadori di Quanto è abbastanza, di Robert ed Edward Skidelsky, il primo docente di Politica economica a Warwick e autore – non a caso – di una monumentale biografia di Keynes, il secondo docente di Filosofia a Exter: bello che siano un padre e il figlio a riflettere insieme su questo tema. La domanda di fondo è: di che cosa abbiamo bisogno per essere felici? Di quanto denaro? Un discorso ampio, che porta a mettere in discussione ad esempio la “dittatura” del Pil (che avrà i suoi meriti in fatto di misurazione della produzione economica di un Paese, ma fallisce drammaticamente nel rilevare tutto ciò che dalla dimensione economica esula) e i nostri stili di vita.
Da tempo grandi economisti hanno dimostrato che, raggiunto un certo grado di benessere, la ricchezza non crea affatto felicità. Un dibattito a cui nessuno – individuo, comunità, istituzioni – si dovrebbe sottrarre.
Silenzio, parla Darwin
Ogni tanto si torna a parlare del rapporto fra creazionismo ed evoluzionismo, quindi fra fede e e scienza. Nel mio piccolo, non ho mai capito perché i due concetti fossero incompatibili…
A costituire problema, per me, era invece l’idea che l’evoluzione, che procede attraverso la selezione del più forte, stridesse con una concezione cristiana e solidaristica della vita e della società: come se il corso della natura escludesse l’amore e la morale…
Un illuminante saggio mi ha permesso di capire come nella sua forma più evoluta – è proprio il caso di dire – l’evoluzionismo si configuri come un superamanto della legge del più forte e sfoci nella nascita della cultura e dell’etica.
Ripropongo un articolo che ho scritto qualche tempo fa per Il nostro tempo su questi temi:
Due importanti anniversari, i 500 anni della scoperta del telescopio da parte di Galileo e i 200 anni dalla nascita di Darwin, ripropongono il rapporto fra fede e scienza, quanto mai attuale per le continue sfi de che la ricerca pone alla religione. Delle “incomprensioni” di cui furono vittime i due scienziati al loro tempo sappiamo molto e non è il caso di tornarci sopra. Vale solo la pena di ricordare che sul “caso Galileo” molto ha fatto, durante il suo pontifi cato, Giovanni Paolo II, avviando e portando a compimento un processo di riabilitazione del grande scienziato, compresa una richiesta di perdono per l’atteggiamento che la Chiesa ebbe nei suoi confronti. Ma è sul caso Darwin che qui vogliamo concentrare la nostra attenzione.
La scoperta della legge dell’evoluzione attraverso la selezione naturale («L’origine della specie attraverso la selezione naturale» uscì nel 1859) è stata oggetto di quella che a noi, oggi, pare un colossale equivoco, che peraltro allunga i suoi retaggi fi no al presente. A molti ambienti religiosi l’affermazione che la natura si sviluppa per evoluzione risultò incompatibile con la dottrina cristiana, per il fatto che avrebbe escluso l’atto creatore da parte di Dio. Di qui la lunga e tenace contrapposizione fra evoluzionisti e creazionisti che per decenni ha infi ammato dibattiti e pubblicazioni. Ringraziando il cielo, oggi è abbastanza chiaro che l’evoluzionismo può essere serenamente accettato dai credenti, in quanto non elide affatto la possibilità che all’origine della vita ci sia la creazione. Che il creato avanzi per evoluzione, in altri termini, non esclude l’idea di un creatore. L’evoluzione è la modalità secondo la quale il creato procede. Accostandoci serenamente ai risultati della ricerca dello scienziato inglese, ci sembra che emerga un altro nodo che, per le sue implicazioni, può rappresentare un problema per i credenti.
Ci spieghiamo. Assodato che la natura procede per evoluzione secondo la legge delle selezione naturale, ovvero la lotta per la sopravvivenza che fa prevalere gli organismi più attrezzati e più capaci di adattarsi all’ambiente su quelli più deboli, non possiamo non ravvisare in questa legge un tratto brutale, violento: il più forte ha la meglio sul più debole, il più capace vince a discapito del meno capace… In tutto ciò, colui che si è formato ai principi del Vangelo e della cultura cristiana non può non percepire un elemento “anticristiano”. Non costituisce un problema serio, per quanti credono che il comandamento assoluto sia quello dell’amore, che non solo non esclude nessuno, ma anzi si dirige in maniera privilegiata ai più deboli, agli “ultimi”, che il mondo proceda secondo una logica opposta? E poi, per riprendere Galileo, se il libro della natura rispecchia la grandezza del suo creatore, com’è possibile che porti impressa una legge tanto brutale?
Il quesito assume tutta la sua forza drammatica nel momento in cui il ragionamento si estende dalla sfera naturale a quella sociale, dalla natura alle relazioni umane. Per inciso, si noti che le teorie razziste o favorevoli all’eugenetica potrebbero trovare radicamento (e storicamente lo hanno trovato) in questo pensiero. Ad aiutarci a dare una riposta a tale interrogativo interviene un libro prezioso. Si intitola «Effetto Darwin» e l’ha scritto un fi losofo francese, Patrick Tort (Angelo Colla editore, pp. 200, euro 21). Tort tematizza e chiarisce una serie di punti della massima importanza. Intanto, vale la pena essere informati del fatto che Darwin per tutta la vita praticò la carità e il sostegno ai deboli. Inoltre si batté, ad esempio, perché i poveri avessero le stesse opportunità dei ricchi in fatto di procreazione. Era dunque in contraddizione con la sua stessa teoria? La sua biografia smentisce le sue scoperte? «Effetto Darwin» dimostra il contrario: lo fece in accordo con esse. Innanzitutto, è un errore pensare che Darwin accettasse di allargare i principi e gli effetti della sua teoria dal mondo naturale a quello sociale. C’è naturalmente una corrente di pensiero che, partendo dai suoi scritti, si è mossa in tale direzione, ed è il cosiddetto darwinismo sociale. Il che non equivale a dire che il naturalista inglese la pensasse così: al contrario, non ha mai autorizzato ad estendere sic et simpliciter la legge dell’evoluzione per selezione naturale alla sfera umana.
Quello che sostenne in proposito è una cosa diversa e al tempo stesso fondamentale. La selezione naturale non seleziona soltanto quelle variazioni organiche che meglio rispondono alle esigenze di adattamento e di cambiamento dell’ambiente, ma anche una serie di istinti sociali che, nel loro progredire, determinano la nascita di ciò che chiamiamo cultura e senso morale. Assistiamo insomma non solo a un’evoluzione biologica, ma anche un’evoluzione sociale, culturale e morale. E siamo così al punto decisivo: quanto più l’evoluzione “umana” si affi na, tanto più essa produce la civiltà, che tende a “ribellarsi” alla legge della selezione naturale, promuovendo la difesa del debole e degli ultimi. Il punto di partenza resta dunque, senza eccezioni, quello della legge naturale. Questa, tuttavia, non genera solo cambiamenti organici, ma anche sociali-culturali-morali, che hanno un effetto reversivo sulla stessa legge della selezione naturale da cui provengono, nel senso che tendono a negarla ed eliminarla. La selezione naturale produce la cultura, la cultura elimina la selezione naturale, in nome di una morale che eleva a valore non l’esclusione del debole, ma la sua protezione. La selezione naturale finisce con il rovesciarsi nel suo contrario.
Qui possiamo misurare la radicale distanza fra l’antropologia darwiniana e l’antropologia evoluzionista, che richiama astrattamente Darwin, tradendo però i suoi scritti e il suo pensiero. Come credenti che rispettano la libertà di ricerca delle scienze, che non chiudono gli occhi di fronte alle scoperte e che sono convinti che Dio non possa essere estraneo al corso della natura e della storia, contempliamo la spiegazione di Patrick Tort con stupore, gioia, commozione. Si ripete un fatto accaduto tante volte nella storia: soltanto molto tempo dopo l’emergere di una nuova “verità scientifi ca”, ne scopriamo il senso profondo e ci rendiamo conto che la fede è totalmente compatibile con il progresso e non ha paura della ricerca. Anzi, ancora una volta, grazie alla scienza, siamo nella condizione di ammirare quello straordinario libro che è il mondo della natura, scorgendovi lo sguardo di una trascendenza sapiente.
Questo è il link alla pagina de Il nostro tempo: www.ilnostrotempo.it/archiviopdf/2009/tempo_26/ILNTEMPO026G1Q_013.pdf
C’è vergogna e vergogna…
Non è casuale che, negli ultimi anni, siano usciti diversi saggi sul tema della vergogna. L’attualità offre non pochi spunti per una riflessione sulla sua scomparsa. Marco Belpoliti, un paio di anni fa, titolava esplicitamente Senza vergogna la sua indagine (Guanda).
Stimolante e appassionante è il lavoro che la sociologa Gabriella Turnaturi ha condotto in Vergogna. Metamorfosi di un’emozione (Feltrinelli), mia attuale lettura. L’idea di fondo, ben argomentata e convinvente, è che la vergogna non è scomparsa, come farebbero presumere scandali, episodi di corruzione, impunità, esibizioni di arroganza e ostentazioni di narcisismo, di cui tutti possiamo trovare un’ampia fenomenologia nella nostra vita quotidiana. Essa si è trasformata, ha assunto forme nuove.
Se in passato era la reazione di un individuo alla violazione di un codice etico condiviso dalla comunità, oggi è legata al concetto di performance: poiché ciò che conta è l’affermazione di sé, in una società ridotta a palconscenico per il nostro spettacolo, ci si vergogna allorché non ci si sente all’altezza o si ritiene che la propria esibizione sia inadeguata. Resta, a ben vedere, il riferimento a un orizzonte di valori condiviso, solo che questo è profondamente mutato.
Un altro pregio del saggio è quello di argomentare il discorso con esempi tratti dal cinema e dalla letteratura. Il saggio della Turnaturi sarà oggetto della prossima puntata dell'”Alfabeto dell’etica”, la serie che sto sviluppando sul sito di Famiglia Cristiana.
Che cosa intendi per “rispetto”?
Rispetto: parola stupenda, quanto abusata. Pretendono rispetto persone e gruppi che non lo meritano; viceversa, chi lo meriterebbe, spesso, non ha la fortuna di “riceverlo”. Eppure un’etica senza rispetto o, più radicalmente ancora, una vita senza rispetto è inimmaginabile. Vale la pena allora cercare di indagare il concetto.
Possiamo farlo con l’ausilio di un bel volumetto di Roberto Mordacci, docente di Filosofia morale all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, intitolato semplicemente Rispetto (fa parte della collana Moralia, diretta dallo stesso Mordacci).
In breve, la lettura del saggio, pubblicato da Raffello Cortina, mi ha lasciato queste indicazioni:
1) storicamente il rispetto si è declinato come rapporto asimettrico, diseguale, fra un inferiore e un superiore
2) il rispetto della persona o dell’individo in quanto tale è una conquista moderna
3) essa si fonda sul riconoscimento della persona
4) tale riconoscimento scaturisce dalla consapevolezza che l’individuo è portatore di un quid irriducibile: la libertà o capacità di autodeterminazione
5) anche le espressioni della creatività umana (le opere d’arte ad esempio) e la natura (animali, paesaggio) hanno diritto al rispetto, secondo una gradazione determinata dalla gerarchia ontologica
6) fondamento necessario della morale, il rispetto deve avere anche una valenza politica
Gli spunti, come si vede, non mancano.
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