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Raskolnikov oggi vaga per Kabul
Eco la recensione a Maledetto Dostoevskij di Atiq Rahimi pubblicata su Il nostro tempo. Di questo magnifico libro avevo già scritto nel blog.
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Di Atiq Rahimi, nato a Kabul nel 1962, in esilio politico a Parigi avevamo letto e ammirato Pietra di pazienza (Einaudi), vincitore del prestigioso Goncourt nel 2008, intensa meditazione sulla condizione femminile nel mondo afghano e islamico in generale. Non ci siamo perciò fatti sfuggire l’ultimo suo libro tradotto in italiano, sempre da Einaudi, anche perché chiamava in causa fin dal titolo uno degli autori più grandi della storia della letteratura di tutti i tempi: Maledetto Dostoevskij.
Ci troviamo a Kabul, in un tempo che potrebbe benissimo essere oggi, città in mano ai mujaheddin. Rassul è un giovane da poco tornato dall’Unione sovietica, dove ha studiato e conosciuto le opere di Dostoevskij. Sentendo di essere finito in una situazione insostenibile, senza futuro, decide di eliminare la vecchia usuraia che costringe la fidanzata Sophia a prostituirsi e a rubarle denaro. Proprio mentre sta per compiere il delitto e la scure comincia a scendere con forza dall’alto verso la testa della vecchia, gli viene in mente che sta ripetendo le gesta di Raskolnikov, il protagonista di Delitto e castigo, di Dostoevskij appunto. L’esitazione di un istante, non sufficiente a invertire il movimento di gravità – non solo fisica, ma anche morale – che non impedirà all’arma di abbattersi sulla vittima, uccidendola. C’è qualcosa di comico, e immensamente tragico, nella descrizione di questa scena. Ad ogni modo, Rassul non può più tornare indietro, lascia la stanza, dimenticando il denaro. Poi ha un ripensamento: tanto vale completare l’opera e rubare i soldi. Ma incrocia una donna misteriosa, avvolta in un burqa blu che la rende irriconoscibile, diretta nella casa della vecchia. E, dopo un po’, esce. Non per dirigersi alla polizia, ma per svanire nel nulla.
Rassul l’ha fatta franca. Nessuno l’ha visto, nessuno ha testimoniato contro di lui, nessuno l’accusa di nulla. Nemmeno quella donna misteriosa, che si è richiusa la porta dietro di sé… Lo scampato pericolo, però, anziché dargli sollievo, lo getta in una prostrazione che, di giorno in giorno, di pagina in pagina, diventa sempre più profonda e irredimibile. Capisce Rassul, sempre più chiaramente, che se le terribili guardie dei mujaheddin non verranno a chiedergli conto di quanto ha fatto, ci ha pensato qualcun altro a insinuargli il tarlo dell’inquietudine: la sua coscienza. Prova allora a narcotizzarla, in diversi modi, soprattutto rifugiandosi in questi luoghi pubblici dove si fuma l’hashish per dimenticare gli affanni della vita e di una città senza pace. Solo che quella maledetta coscienza – maledetta lei e Dostoevskij – gli impedisce di rivedere e incontrare la fidanzata. Anzi, una totale afasia lo coglie, impedendogli di pronunciare anche una sola parola. Insomma, il nostro Rassul comincia a escludersi da sé dalla comunità umana, sentendosi indegno.
Il protagonista cade in uno stato di torpore mentale e di inazione che gli impedisce persino di ricevere l’aiuto del generoso cugino e di darsi da fare per proteggere la madre e la sorella, rimaste sole dopo la morte del padre. È per lui l’inizio di un’odissea la cui meta finale dovrebbe essere una pace che, come Itaca per Ulisse, sembra irraggiungibile per il frapporsi di continui ostacoli e imprevisti. Il grande imprevisto, qui, come insegnava Dostoevskij, è la legge morale che qualcuno ha inciso nella nostra coscienza. Rassul, che è un giovane intelligente, lo sa e lentamente matura la decisione di consegnarsi alla giustizia per essere processato. Solo il giudizio della comunità degli uomini e l’espiazione di una giusta condanna, qualunque essa sia, gli potranno restituire la vita.
Qui ha inizio una parte straordinaria del romanzo, che consigliamo al lettore di leggere e meditare riga dopo riga. Avere giustizia a Kabul, dilaniata da lotte intestine e da una violenza smisurata, ben simboleggiata da una strana polvere che copre ogni cosa, non è impresa facile. Nella sua ricerca di giustizia contro di sé Rassul incontra due personaggi, con i quali dà vita a dialoghi memorabili, tanto densi e profondi da valere un trattato di diritto e di morale. Uno di questi è il comandante Parwaiz, un pezzo grosso della sicurezza nazionale. Questo ragazzo strano che parla di Dostoevskij e si vuole consegnare, distrutto da un conflitto interiore, mentre all’esterno divampa una battaglia feroce, lo incuriosisce. Il fatto che in un posto in cui ogni legge, ogni regola, siano esse civili o morali, sono saltate, un ragazzo voglia pagare per un delitto di cui nessuno lo accusa, smuove qualcosa nella sua coscienza (sì, questo è un romanzo di coscienze). E quando, in uno degli incontri, Rassul gli dirà che processarlo e condannarlo per quello ch’egli ha fatto è l’unica maniera per ristabilire un equilibrio, impedire il perpetuarsi della violenza e dell’ingiustizia, qualcosa nel potente comandante si incrinerà, gettando le premesse di decisioni radicali.
Non meno memorabile l’incontro di Rassul con il cancelliere in un tribunale anche materialmente devastato e a pezzi.Scherno e, alla lunga, irritazione sono la sua reazione alla pretesa di questo giovanotto di mettere a posto la coscienza. Non vedi, gli dice, in che condizioni versa la giustizia in questa città, in questo Paese? Non vedi che non è rimasto più nulla? E tu vorresti un processo regolare? Non ti posso proprio aiutare…
Maledetto Dostoevskij è uno straordinario romanzo sulla forza insopprimibile di quella che Kant chiamò «la legge morale dentro di noi», di quella che possiamo chiamare coscienza, anima, cuore, poco cambia. In quel luogo misterioso che abita dentro ogni uomo, è racchiuso un senso di giustizia che nemmeno i disastri della storia possono annichilire. Nel bisogno di giustizia di Rassul si scorge la volontà di ristabilire un ordine che appartiene alla natura più profonda dell’uomo. Un valore, questo, che giustifica anche il sacrificio di sé. In questo senso – ci spingiamo qui probabilmente oltre le intenzioni dell’autore, ma la storia che ha raccontato racchiude anche questo significato – ravvisiamo un richiamo alla parabola di Cristo o, se vogliamo, di chiunque accetti di pagare per tutti, in nome del bene comune, pur di non venire meno alla legge (dell’amore). E senza dubbio quella di Rassul è una parabola morale, metafisica e teologica.
Paesaggio, bene comune (forza Monti!)
La lettera indirizzata dal Forum nazionale “Salviamo il paesaggio” al ministro dell’Agricoltura Mario Catania, mi permette di recuperare una notizia di qualche giorno fa che non esito a considerare epocale, qualora si traducesse in realtà. Il Consiglio dei ministri il 14 settembre scorso ha approvato un disegno di legge per la difesa e valorizzazione dei terreni agricoli.
Il testo contiene alcuni punti fondamentali:
– viene fissato un limite di legge alla cementificazione, ovvero al consumo del suolo
– viene introdotto il divieto di mutamento di destinazione (i campi per i quali sono stati concessi aiuti di Stato non potranno essere impiegati per altre finalità per cinque anni)
– viene cancellata la possibilità di utilizzare i cosiddetti oneri di urbanizzazione per la spesa corrente degli enti locali (dal 2007, un funesto provvedimento ha permesso che i soldi pagati dalle imprese edili ai Comuni per costruire fossero usati non soltanto per portarvi i sevizi: ringraziando il cielo, si stabilisce di tornare al passato)
Per apprezzare appieno il disegno di legge, va tenuto conto che in 40 anni ci siamo mangiati (mai termine fu più appropriato) un terriotorio esteso come la Lombardia, la Liguria e l’Emilia Romagna. E che l’Italia non è in grado di soddisfare nemmeno il suo fabbisogno di prodotti agricoli: dobbiamo importare dall’estero in parte latte, olio…
Per me, qualora diventasse legge, si tratta di una rivoluzione. Non solo per gli effetti diretti, peraltro urgenti e necessari (stiamo coprendo di un manto di cemento la nostra terra), ma anche per la visione politica e strategica che il provvedimento esprime: la natura, il paesaggio, insieme alla cultura, sono il più grande bene di cui dispone il nostro Paese. Soprattutto in tempi di crisi, potrebbe dare lavoro e “sfamarci”, oltre a mantenere intatto l’incanto del nostro territorio. Solo il cedimento agli interessi più bassi e materiali, in questi anni, ha potuto permettere uno scempio di cui dovremo rendere conto agli uomini – in particolare agli uomini di domani, i bambini di oggi – e a Dio (vi assicuro che sono parle misurate, per come la penso).
Mi ha un po’ sorpreso che le associazioni ambientaliste e tutti i cittadini di buona volontà non siano immediatamente intervenuti per esprimere un deciso sostegno a questo illuminato disegno. Spero mi sia sfuggita qualche iniziativa. E ben venga la lettera del Forum nazionale “Salviamo il paesaggio”.
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