Elenco degli articoli taggati con "etica Archives - Paoloperazzolo.it"
Per un’etica – Imperativo categorico 2 – «Non fare agli altri ciò che non vuoi che venga fatto a te»
Per definire un’etica che si avvalga della lezione dell’esperienza, ma che avvia una valenza universale (vedi l’articolo introduttivo), dopo il primo imperativo categorico (vedi qui), proviamo a proporne un secondo: «Non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te».
Certamente qui non scopriamo nulla di nuovo, ma riscopriamo la sapienza intramontabile di una massima divenuta patrimonio comune. Da un punto di vista filosofico, la sua forza risiede nel fatto che costringe il soggetto etico a regolare la propria azione mettendosi nei panni dell’altro, partendo però da sé stesso. C’è un doppio movimento in questo imperativo: verso l’altro («non fare agli altri») e verso sé stessi («quello che non vuoi venga fatto a te»).
Contro questo principio viene sollevata di solito un’obiezione: ciò che piace a me, ciò che è bene per me, non è detto che lo sia anche per l’altro. Anzi, a volte è addirittura il contrario. Tuttavia, come anticipato sopra, la forza di questa massima sta nell’indurre ciascuno a capire ciò che è bene per l’altro, non per se stesso. Ognuno di noi, infatti, chiede agli altri che “gli venga fatto” tutto ciò che è bene per lui, non ciò che è bene per gli altri. Perciò il soggetto etico, se vuole agire davvero come una persona buona, deve sforzarsi di capire ciò che l’altro considera bene per se stesso e non imporgli ciò che è bene per lui.
Così questa regola aurea, in apparenza così semplice, addirittura naïf, rivela una profondità, uno spessore e una complessità insospettabili, dicendoci che se vogliamo comportarci in modo eticamente corretto non basta “fare all’altro” ciò che per noi è bello, buono, utile (che può trasformarsi addirittura in qualcosa di brutto, cattivo, inutile); è invece necessario impegnarsi a scoprire quello che per lui è bello, buono, utile.
(Apro qui una parentesi: questa interpretazione del “non fare all’altro ciò che non vuoi che non venga fatto a te, evoca il concetto evangelico del “farsi prossimo” come risposta alla domanda: chi è il mio prossimo?).
Nel commentare questa massima abbiamo volto in positivo una frase formulata in negativo: da “non fare” è diventato un “fare”. Ciò è diretta conseguenza della nostra interpretazione: mettendosi nei panni dell’altro per capire qual è il bene che desidera non ci limitiamo a omettere quelle azioni che potrebbero danneggiarlo, ma ci impegniamo a procurargli il bene che ci è possibile. Da un atteggiamento passivo, a un atteggiamento attivo.
Infine, potremmo definire questa seconda regola come la regola etica dell’empatia.
Per un’etica – Imperativo categorico 1: «Agisci come se i tuoi figli ti stessero guardando e in modo che non si debbano mai vergognare di te»
Il primo imperativo di un’etica che voglia dare un valore universale all’esperienza è: «Agisci come se i tuoi figli ti stessero guardando e in modo che non si debbano mai vergognare di te».
Credo che chi è genitore non abbia difficoltà a capire il senso di questo imperativo: è insostenibile l’idea di compiere il male davanti ai loro occhi, come quella di fare scelte o mettere in atto azioni che possano provocare in loro la vergogna di avere un padre e una madre del genere.
Ai figli vogliamo dare il meglio, anche di noi stessi. Spesso vorremmo offrire loro anche più di quello che siamo in grado di dare. Ecco allora che rivolgere un pensiero nel momento della decisione a loro, al loro sguardo e alla loro azione, può aiutarci a mettere da parte istinti violenti, aggressività, collera per lasciare spazio invece alla ricerca del giusto, dell’onesto, del buono.
Google Car, ha un bel problema
È dei giorni scorsi la notizia del primo incidente mortale in una vettura che viaggiava con il pilota automatico. A maggio in Florida il conducente di una Tesla Model S che aveva in quel momento inserito il sistema Autopilot (una specie di guida semiautomatica) ha perso la vita. La Tesla ha subito precisato che si tratta del primo incidente mortale dopo 200 milioni di chilometri percorsi dalle vetture di questo tipo, ma non ha potuto impedire l’inchiesta negli Usa dell’NHTSA, l’ente federale Usa per la sicurezza stradale.
Intanto resta vivace il dibattito sugli algoritmi con cui programmiamo le auto a guida autonoma, le Google Car, per intenderci: in base agli algoritmi che i programmatori, cioè l’uomo, le assegneranno, l’auto “saprà” come comportarsi. Ora, è certo che la Google Car potrà risparmiare migliaia di incidenti e di vittime, per la semplice ragione che non è suscettibile del classico “errore umano”. Semmai è emerso che proprio la scrupolosa attenzione e osservanza del Codice stradale potrebbe provocare degli incidenti, perché impatterebbe con l’umana tendenza a fare il contrario…
Tuttavia è un’altra questione a sollevare i problemi più spinosi, perché sconfina dall’ambito prettamente tecnologico in quello filosofico ed etico. Per spiegare di che cosa stiamo parlando, conviene fare un esempio: la nostra Google Car con un passeggero a bordo sta viaggiando tranquilla, “vede” un semaforo verde e quindi procede per la sua strada. All’improvviso un gruppo di pedoni attraversano, noncuranti del rosso. In situazioni del genere, che cosa dovrà fare la Google Car? Investire i pedoni, perché non hanno rispettato la segnaletica? Oppure buttarsi di lato, per salvarli, con l’alta possibilità di ferire o uccidere il suo passeggero? Che cosa è giusto fare?
La situazione si può complicare ulteriormente, in base alle varianti immaginabili: se il passeggero è una donna incinta? Se ad attraversare la strada sono dei bambini? E così via…
Qualcuno ha provato a proporre la celebre dottrina del male minore come soluzione. Ma siamo sicuri che sia davvero una soluzione? Oppure non è, in questo caso, un criterio eccessivamente utilitaristico? E come calcolare, ammesso che sia possibile, il “valore” delle persone? Basta un criterio quantitativo a dirimere il dilemma: il valore dipende dal numero di persone in gioco, cioè meglio sacrificarne una per salvarne ad esempio quattro? E se quell’unica persona è una madre incinta, appunto?
Inutile dire che la Google Car, con tutta la sua fiammante e avveniristica tecnologia, non è in grado di rispondere a queste domande. Reagirà alla situazioni in base ai comandi, agli algoritmi che le verranno trasmessi da noi uomini. E quindi: come vogliamo configurarla? Nelle situazioni prospettate, dovrà seguire la teoria del male minore? Oppure?
Vale la pena aggiungere che alcune ricerche hanno evidenziato che tutti noi siamo d’accordo, in linea di massima, che è preferibile salvare quattro vite sacrificandone una sola. Salvo che quella vita da sacrificare sia la nostra. Il che significa che nessuno comprerebbe un’auto a guida autonoma programmata per sacrificare il suo passeggero al fine di salvare altre vite…
La tecnologia sembra più evoluta della nostra capacità di dare risposte etiche…
L’articolo è stato pubblicato l’1-7-2016 su Famigliacristiana.it
Tu uccideresti l’uomo grasso?
Se la domanda vi sembra assurda, provate a leggere questo articolo. E poi ne riparliamo…
L’avete letto?
Che cosa ne pensate, allora? La faccenda è più complicata – meno assurda – di quel che sembrava, vero?
Sport estremi, un brivido non vale una vita
L’uomo per natura vuole superare i suoi limiti. E provare emozioni, forti e travolgenti. Fino a mettere a repentaglio la vita, come accade a volte con gli sport estremi. Ha senso? Fino a che punto la tensione a sperimentare giustifica il rischio?
Una mia riflessione morale sugli sport estremi.
19 rompicapi morali, più i miei
Mi è arrivato da Laterza (quanti bei libri pubblica questo editore!) un accattivante saggio: Del profumo dei croissants caldi e delle sue conseguenze sulla bontà umana. Sottototitolo: 19 rompicapi morali. Lo ha scritto Ruwen Ogien direttore di ricerca al Cnrs, autori di vari saggi di etica.
Tanti i meriti del volume:
– dimostrare che la filosofia è insita nella nostra vita quotidiana e che, qualunque atteggiamento o scelta compiamo, esprimiamo un modo di ragionare
– mostrare come, in circostanze diverse, il confine tra l’essere o il diventare buoni e l’essere o diventare cattivi sia piuttosto labile
– fornire una scatola di attrezzi per affrontare i piccoli-grandi dilemmi morali della nostra esistenza
Ciascuno potrebbe raccontare i suoi dilemmi morali. Provo a citarne alcuni io.
1) Come comportarsi in luoghi, gruppi, ambienti in cui a prevalere ed essere riconosciuti non sono il merito, il talento, la capacità, bensì altri comportamenti, come il mostrarsi compiacenti con il capo, il non dissentire dalla linea dei potenti di turno? Ha senso continuare a spendere le proprie energie in questi contesti? Come far riconoscere il proprio valore a chi, nei fatti, si dimostra incapace – costitutivamente o per calcolo – di farlo?
2) Come reagire di fronte al male? Lo so, è una domanda impossibile, assurda, da cento millioni di dollari. Eppure tutti dobbiamo, in scale diverse, misurarci con il problema dei problemi: la presenza del male, nella sue infinite forme (ingiustizia, arroganza, corruzione, egoismo, violenza, dolore, malattia…). E la nostra serenità e il nostro equilibrio dipendono molto dalla risposta che diamo a questa domanda ineludibile. Dunque, come la mettiamo con il male che tocca la nostra vita? Come non soccombere, senza venirne schiacciati? Come far valere i propri diritti, senza farsi collusi al potere?
L’alfabeto dell’etica: rispetto
Sul sito di Famiglia Cristiana sto curando la serie “L’alfabeto dell’etica”, interviste a filosofi e pensatori che riflettono sulle parole delle morale, come primo passo per un agire più consapevole e responsabile. Vorrei gradualmente portarle anche nel mio blog. Intanto, qui, creo il collegamento all’intervista a Roberto Mordacci sul tema del rispetto: www.famigliacristiana.it/costume-e-societa/cultura/letto/articolo/rispetto.aspx.
Anche l’intervista a Edgar Morin sul concetto di sviluppo fa parte di questa serie: ne ho già parlato in questo blog.
Raskolnikov oggi vaga per Kabul
Eco la recensione a Maledetto Dostoevskij di Atiq Rahimi pubblicata su Il nostro tempo. Di questo magnifico libro avevo già scritto nel blog.
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Di Atiq Rahimi, nato a Kabul nel 1962, in esilio politico a Parigi avevamo letto e ammirato Pietra di pazienza (Einaudi), vincitore del prestigioso Goncourt nel 2008, intensa meditazione sulla condizione femminile nel mondo afghano e islamico in generale. Non ci siamo perciò fatti sfuggire l’ultimo suo libro tradotto in italiano, sempre da Einaudi, anche perché chiamava in causa fin dal titolo uno degli autori più grandi della storia della letteratura di tutti i tempi: Maledetto Dostoevskij.
Ci troviamo a Kabul, in un tempo che potrebbe benissimo essere oggi, città in mano ai mujaheddin. Rassul è un giovane da poco tornato dall’Unione sovietica, dove ha studiato e conosciuto le opere di Dostoevskij. Sentendo di essere finito in una situazione insostenibile, senza futuro, decide di eliminare la vecchia usuraia che costringe la fidanzata Sophia a prostituirsi e a rubarle denaro. Proprio mentre sta per compiere il delitto e la scure comincia a scendere con forza dall’alto verso la testa della vecchia, gli viene in mente che sta ripetendo le gesta di Raskolnikov, il protagonista di Delitto e castigo, di Dostoevskij appunto. L’esitazione di un istante, non sufficiente a invertire il movimento di gravità – non solo fisica, ma anche morale – che non impedirà all’arma di abbattersi sulla vittima, uccidendola. C’è qualcosa di comico, e immensamente tragico, nella descrizione di questa scena. Ad ogni modo, Rassul non può più tornare indietro, lascia la stanza, dimenticando il denaro. Poi ha un ripensamento: tanto vale completare l’opera e rubare i soldi. Ma incrocia una donna misteriosa, avvolta in un burqa blu che la rende irriconoscibile, diretta nella casa della vecchia. E, dopo un po’, esce. Non per dirigersi alla polizia, ma per svanire nel nulla.
Rassul l’ha fatta franca. Nessuno l’ha visto, nessuno ha testimoniato contro di lui, nessuno l’accusa di nulla. Nemmeno quella donna misteriosa, che si è richiusa la porta dietro di sé… Lo scampato pericolo, però, anziché dargli sollievo, lo getta in una prostrazione che, di giorno in giorno, di pagina in pagina, diventa sempre più profonda e irredimibile. Capisce Rassul, sempre più chiaramente, che se le terribili guardie dei mujaheddin non verranno a chiedergli conto di quanto ha fatto, ci ha pensato qualcun altro a insinuargli il tarlo dell’inquietudine: la sua coscienza. Prova allora a narcotizzarla, in diversi modi, soprattutto rifugiandosi in questi luoghi pubblici dove si fuma l’hashish per dimenticare gli affanni della vita e di una città senza pace. Solo che quella maledetta coscienza – maledetta lei e Dostoevskij – gli impedisce di rivedere e incontrare la fidanzata. Anzi, una totale afasia lo coglie, impedendogli di pronunciare anche una sola parola. Insomma, il nostro Rassul comincia a escludersi da sé dalla comunità umana, sentendosi indegno.
Il protagonista cade in uno stato di torpore mentale e di inazione che gli impedisce persino di ricevere l’aiuto del generoso cugino e di darsi da fare per proteggere la madre e la sorella, rimaste sole dopo la morte del padre. È per lui l’inizio di un’odissea la cui meta finale dovrebbe essere una pace che, come Itaca per Ulisse, sembra irraggiungibile per il frapporsi di continui ostacoli e imprevisti. Il grande imprevisto, qui, come insegnava Dostoevskij, è la legge morale che qualcuno ha inciso nella nostra coscienza. Rassul, che è un giovane intelligente, lo sa e lentamente matura la decisione di consegnarsi alla giustizia per essere processato. Solo il giudizio della comunità degli uomini e l’espiazione di una giusta condanna, qualunque essa sia, gli potranno restituire la vita.
Qui ha inizio una parte straordinaria del romanzo, che consigliamo al lettore di leggere e meditare riga dopo riga. Avere giustizia a Kabul, dilaniata da lotte intestine e da una violenza smisurata, ben simboleggiata da una strana polvere che copre ogni cosa, non è impresa facile. Nella sua ricerca di giustizia contro di sé Rassul incontra due personaggi, con i quali dà vita a dialoghi memorabili, tanto densi e profondi da valere un trattato di diritto e di morale. Uno di questi è il comandante Parwaiz, un pezzo grosso della sicurezza nazionale. Questo ragazzo strano che parla di Dostoevskij e si vuole consegnare, distrutto da un conflitto interiore, mentre all’esterno divampa una battaglia feroce, lo incuriosisce. Il fatto che in un posto in cui ogni legge, ogni regola, siano esse civili o morali, sono saltate, un ragazzo voglia pagare per un delitto di cui nessuno lo accusa, smuove qualcosa nella sua coscienza (sì, questo è un romanzo di coscienze). E quando, in uno degli incontri, Rassul gli dirà che processarlo e condannarlo per quello ch’egli ha fatto è l’unica maniera per ristabilire un equilibrio, impedire il perpetuarsi della violenza e dell’ingiustizia, qualcosa nel potente comandante si incrinerà, gettando le premesse di decisioni radicali.
Non meno memorabile l’incontro di Rassul con il cancelliere in un tribunale anche materialmente devastato e a pezzi.Scherno e, alla lunga, irritazione sono la sua reazione alla pretesa di questo giovanotto di mettere a posto la coscienza. Non vedi, gli dice, in che condizioni versa la giustizia in questa città, in questo Paese? Non vedi che non è rimasto più nulla? E tu vorresti un processo regolare? Non ti posso proprio aiutare…
Maledetto Dostoevskij è uno straordinario romanzo sulla forza insopprimibile di quella che Kant chiamò «la legge morale dentro di noi», di quella che possiamo chiamare coscienza, anima, cuore, poco cambia. In quel luogo misterioso che abita dentro ogni uomo, è racchiuso un senso di giustizia che nemmeno i disastri della storia possono annichilire. Nel bisogno di giustizia di Rassul si scorge la volontà di ristabilire un ordine che appartiene alla natura più profonda dell’uomo. Un valore, questo, che giustifica anche il sacrificio di sé. In questo senso – ci spingiamo qui probabilmente oltre le intenzioni dell’autore, ma la storia che ha raccontato racchiude anche questo significato – ravvisiamo un richiamo alla parabola di Cristo o, se vogliamo, di chiunque accetti di pagare per tutti, in nome del bene comune, pur di non venire meno alla legge (dell’amore). E senza dubbio quella di Rassul è una parabola morale, metafisica e teologica.
Soldi alla banca (etica) o alla mendicante?
Ho aperto un conto alla banca etica. Da tempo ci stavo pensando, finalmente mi sono deciso. Voglio che il mio denaro serva a finanziare progetti che rispettano l’uomo e l’ambiente. Non voglio scoprire che sono finiti a finanziare qualche azienda che fa cose che non posso accettare.
Per chi non la conoscesse, Banca etica si distingue dagli altri istituti di credito (www.bancaetica.com) per alcune ragioni: finanzia solo imprese che superano certi requisiti (quelle che inquinano o sfruttano il lavoro minorile, ad esempio, non riceveranno mai un euro) e destina parte del guadagno al sostegno di progetti sociali e ambientali di valore.
Mi sono deciso per la ragione ricordata sopra, ma anche perché chi sa è responsabile: voglio dire che, avendo avuto l’opportunità di conoscere i principi di Bance etica e condividendoli, se non “la scelgo” sono colpevole, rinuncio a fare del bene che posso fare.
Mentre tornavo, appena aperto il conto, in metropolitana ho incontrato una donna che chiedeva l’elemosina. Mi sono chiesto: era più giusto e più efficace dare i soldi a questa povera? Mi sono risposto che investire nella Banca etica era una scelta sia moralmente che economicamente preferibile. Dando un euro alla mendicante, nella migliore delle ipotesi le avrei permesso di comprarsi del latte o dei biscotti, ma, subito dopo, avrebbe dovuto tornare a chiedere l’elemosina; nella peggiore delle ipotesi, avrebbe dovuto portare il raccolto a qualche boss… Affidando il denaro a Banca etica, invece, sostengo progetti a lungo termine, duraturi, grazie ai quali qualche persona in più potrà trovare non un’elemosina occasionale, ma un lavoro, un inserimento sociale, un’opportunità reale di cambiare vita…
Intervista a Edgar Morin
La mia intervista su Famigliacristiana.it al filosofo-sociologo-vecchio saggio Edgar Morin: http://www.famigliacristiana.it/costume-e-societa/cultura/letto/articolo/morin.aspx
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