22 Ott 2012

Raskolnikov oggi vaga per Kabul

È difficile mettere a tacere la coscienza.

Eco la recensione a Maledetto Dostoevskij di Atiq Rahimi pubblicata su Il nostro tempo. Di questo magnifico libro avevo già scritto nel blog.

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Di Atiq Rahimi, nato a Kabul nel 1962, in esilio politico a Parigi avevamo letto e ammirato Pietra di pazienza (Einaudi), vincitore del prestigioso Goncourt nel 2008, intensa meditazione sulla condizione femminile nel mondo afghano e islamico in generale. Non ci siamo perciò fatti sfuggire l’ultimo suo libro tradotto in italiano, sempre da Einaudi, anche perché chiamava in causa fin dal titolo uno degli autori più grandi della storia della letteratura di tutti i tempi: Maledetto Dostoevskij.

 Ci troviamo a Kabul, in un tempo che potrebbe benissimo essere oggi, città in mano ai mujaheddin. Rassul è un giovane da poco tornato dall’Unione sovietica, dove ha studiato e conosciuto  le opere di Dostoevskij. Sentendo di essere finito in una situazione insostenibile, senza futuro, decide di eliminare la vecchia usuraia che costringe la fidanzata Sophia a prostituirsi e a rubarle denaro. Proprio mentre sta per compiere il delitto e la scure comincia a scendere con forza dall’alto verso la testa della vecchia, gli viene in mente che sta ripetendo le gesta di Raskolnikov, il protagonista di Delitto e castigo, di Dostoevskij appunto. L’esitazione di un istante, non sufficiente a invertire il movimento di gravità – non solo fisica, ma anche morale – che non impedirà all’arma di abbattersi sulla vittima, uccidendola. C’è qualcosa di comico, e immensamente tragico, nella descrizione di questa scena. Ad ogni modo, Rassul non può più tornare indietro, lascia la stanza, dimenticando il denaro. Poi ha un ripensamento: tanto vale completare l’opera e rubare i soldi. Ma incrocia una donna misteriosa, avvolta in un burqa blu che la rende irriconoscibile, diretta nella casa della vecchia. E, dopo un po’, esce. Non per dirigersi alla polizia, ma per svanire nel nulla.

Rassul l’ha fatta franca. Nessuno l’ha visto, nessuno ha testimoniato contro di lui, nessuno l’accusa di nulla. Nemmeno quella donna misteriosa, che si è richiusa la porta dietro di sé… Lo scampato pericolo, però, anziché dargli sollievo, lo getta in una prostrazione che, di giorno in giorno, di pagina in pagina, diventa sempre più profonda e irredimibile. Capisce Rassul, sempre più chiaramente, che se le terribili guardie dei mujaheddin non verranno a chiedergli conto di quanto ha fatto, ci ha pensato qualcun altro a insinuargli il tarlo dell’inquietudine: la sua coscienza. Prova allora a narcotizzarla, in diversi modi, soprattutto rifugiandosi in questi luoghi pubblici dove si fuma l’hashish per dimenticare gli affanni della vita e di una città senza pace. Solo che quella maledetta coscienza – maledetta lei e Dostoevskij – gli impedisce di rivedere e incontrare la fidanzata. Anzi, una totale afasia lo coglie, impedendogli di pronunciare anche una sola parola. Insomma, il nostro Rassul comincia a escludersi da sé dalla comunità umana, sentendosi indegno.

Il protagonista cade in uno stato di torpore mentale e di inazione che gli impedisce persino di ricevere l’aiuto del generoso cugino e di darsi da fare per proteggere la madre e la sorella, rimaste sole dopo la morte del padre. È per lui l’inizio di un’odissea la cui meta finale dovrebbe essere una pace che, come Itaca per Ulisse, sembra irraggiungibile per il frapporsi di continui ostacoli e imprevisti. Il grande imprevisto, qui, come insegnava Dostoevskij, è la legge morale che qualcuno ha inciso nella nostra coscienza. Rassul, che è un giovane intelligente, lo sa e lentamente matura la decisione di consegnarsi alla giustizia per essere processato. Solo il giudizio della comunità degli uomini e l’espiazione di una giusta condanna, qualunque essa sia, gli potranno restituire la vita.

 Qui ha inizio una parte straordinaria del romanzo, che consigliamo al lettore di leggere e meditare riga dopo riga. Avere giustizia a Kabul, dilaniata da lotte intestine e da una violenza smisurata, ben simboleggiata da una strana polvere che copre ogni cosa, non è impresa facile. Nella sua ricerca di giustizia contro di sé Rassul incontra due personaggi, con i quali dà vita a dialoghi memorabili, tanto densi e profondi da valere un trattato di diritto e di morale. Uno di questi è il comandante Parwaiz, un pezzo grosso della sicurezza nazionale. Questo ragazzo strano che parla di Dostoevskij  e si vuole consegnare, distrutto da un conflitto interiore, mentre all’esterno divampa una battaglia feroce, lo incuriosisce. Il fatto che in un posto in cui ogni legge, ogni regola, siano esse civili o morali, sono saltate, un ragazzo voglia pagare per un delitto di cui nessuno lo accusa, smuove qualcosa nella sua coscienza (sì, questo è un romanzo di coscienze). E quando, in uno degli incontri, Rassul gli dirà che processarlo e condannarlo per quello ch’egli ha fatto è l’unica maniera per ristabilire un equilibrio, impedire il perpetuarsi della violenza e dell’ingiustizia, qualcosa nel potente comandante si incrinerà, gettando le premesse di decisioni radicali.

 Non meno memorabile l’incontro di Rassul con il cancelliere in un tribunale anche materialmente devastato e a pezzi.Scherno e, alla lunga, irritazione sono la sua reazione alla pretesa di questo giovanotto di mettere a posto la coscienza. Non vedi, gli dice, in che condizioni versa la giustizia in questa città, in questo Paese? Non vedi che non è rimasto più nulla? E tu vorresti un processo regolare? Non ti posso proprio aiutare…

Maledetto Dostoevskij è uno straordinario romanzo sulla forza insopprimibile di quella che Kant chiamò «la legge morale dentro di noi», di quella che possiamo chiamare coscienza, anima, cuore, poco cambia. In quel luogo misterioso che abita dentro ogni uomo, è racchiuso un senso di giustizia che nemmeno i disastri della storia possono annichilire. Nel bisogno di giustizia di Rassul si scorge la volontà di ristabilire un ordine che appartiene alla natura più profonda dell’uomo. Un valore, questo, che giustifica anche il sacrificio di sé. In questo senso – ci spingiamo qui probabilmente oltre le intenzioni dell’autore, ma la storia che ha raccontato racchiude anche questo significato – ravvisiamo un richiamo alla parabola di Cristo o, se vogliamo, di chiunque accetti di pagare per tutti, in nome del bene comune, pur di non venire meno alla legge (dell’amore). E senza dubbio quella di Rassul  è una parabola morale, metafisica e teologica.

19 Ott 2012

Soldi alla banca (etica) o alla mendicante?

Anche il denaro può avere un’anima.

Ho aperto un conto alla banca etica. Da tempo ci stavo pensando, finalmente mi sono deciso. Voglio che il mio denaro serva a finanziare progetti che rispettano l’uomo e l’ambiente. Non voglio scoprire che sono finiti a finanziare qualche azienda che fa cose che non posso accettare.

Per chi non la conoscesse, Banca etica si distingue dagli altri istituti di credito (www.bancaetica.com) per alcune ragioni: finanzia solo imprese che superano certi requisiti (quelle che inquinano o sfruttano il lavoro minorile, ad esempio, non riceveranno mai un euro) e destina parte del guadagno al sostegno di progetti sociali e ambientali di valore.

Mi sono deciso per la ragione ricordata sopra, ma anche perché chi sa è responsabile: voglio dire che, avendo avuto l’opportunità di conoscere i principi di Bance etica e condividendoli, se non “la scelgo” sono colpevole, rinuncio a fare del bene che posso fare.

Mentre tornavo, appena aperto il conto, in metropolitana ho incontrato una donna che chiedeva l’elemosina. Mi sono chiesto: era più giusto e più efficace dare i soldi a questa povera? Mi sono risposto che investire nella Banca etica era una scelta sia moralmente che economicamente preferibile. Dando un euro alla mendicante, nella migliore delle ipotesi le avrei permesso di comprarsi del latte o dei biscotti, ma, subito dopo, avrebbe dovuto tornare a chiedere l’elemosina; nella peggiore delle ipotesi, avrebbe dovuto portare il raccolto a qualche boss… Affidando il denaro a Banca etica, invece, sostengo progetti a lungo termine, duraturi, grazie ai quali qualche persona in più potrà trovare non un’elemosina occasionale, ma un lavoro, un inserimento sociale, un’opportunità reale di cambiare vita…

18 Ott 2012

Monti (e Ornaghi), ambientalista (già) pentito?

Una singolare concezione di armonia fra architettura e paesaggio.

Non posso non riprendere la questione sollevata dal bellissimo e puntuale (come sempre) articolo di Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera di oggi, a proposito del nuovo disegno di legge in materia di semplificazione del Governo Monti. In breve, viene cancellato il silenzo-rifiuto in relazione alla richiesta di permesso di costruire in zone sottoposte a vincoli culturali e paesaggistici. Fino ad oggi, trascorsi 90 giorni e in assenza del rilascio del permesso, il silenzio equivaleva a un rifiuto. Il Governo Monti e il ministro Ornaghi hanno pensato bene di cancellare questa norma e di ridurre il termine a 45 giorni: trascorsi i quali, il privato potrà fare ricorso, perché il silenzio non si tradurrà più in un “no”, perché l’ente è tenuto a dare una risposta.

Gli effetti possono essere devastanti: di fronte a Sovrintendenze oggettivamente sotto organico, dare una risposta è, in molti casi, semplicemente impossibile. E al privato non parrà vero di fare ricorso, nella speranza di spuntarla e di edificare dove vuole. Ora, sappiamo che il nostro territorio è sfregiato da una quantità di abusi edilizi e di brutture senza limite. Una vergogna per il cosiddetto Belpaese. Che senso ha, in questo conteso, un provvedimento del genere? Come sottolinea Stella, avrebbe un senso se la macchina amministrativa fosse efficiente e veloce, con un personale adeguato per fare controlli e verifiche; ma nella realtà italiana, significa solo rendere più facile abusi di cui non abbiamo certo bisogno.

Spiace che il ministro Ornaghi non abbia colto la portata, negativa, di una simile norma. Spiace che Monti non ne sia consapevole. E pensare che, in questo blog, lo avevamo lodato per il disegno di legge sul consumo di suolo (leggi qui), quello sì davvero illuminato!

Dobbiamo pensare che Monti e Ornaghi sono ambientalisti già pentiti? Sarebbe un record, dato che quel disegno di legge, peraltro, è lungi dall’essere approvato.

16 Ott 2012

La parola agli introversi

Il libro di Susan Cain e la copertina del Time.

Esce domani in Italia per Bompiani un libro affascinante: Quiet. Il potere degli introversi in un mondo che non sa smettere di parlare. In breve: uno studio, profondo e argomentato, sul prevalere nella società degli estroversi, degli “urlatori”, e del soccombere dei timidi, degli introversi, che di cose da dire e di talenti utili al mondo ne avrebbero in abbondanza… Se solo qualcuno li stesse a sentire.

L’autrice è Susan Cain, timida cronica, un paio di lauree nei maggiori atenei americani, opinionista e consulente per molte aziende. Negli Stati Uniti il libro ha avuto un tale successo che ha ispirato una copertina del Time e ha dato vita a un sito-forum frequentatissimo: www.thepowerofintroverts.com.

Al di là dell’aspetto psicologico della questione, pure rilevante, mi preme sottolineare qui quello culturale: il mondo è davvero nelle mani non di chi ha più capacità, talento, idee, ma di chi sa meglio imporsi. Sui risultati di tale tendenza, lascio a voi giudicare. Non c’è tempo, non c’è voglia, non c’è interesse a scoprire, far emergere i valori nascosti delle persone; la scena è costantemente dominata dai “forti”, da chi sa alzare la voce, attirare l’attenzione. Anche in questo caso a prevalere  è l’apparenza. L’arena politica è tragicamente emblematica.

Susan Cain indaga bene le valenze culturali e sociali del fenomeno e mostra come, nella storia, le più grandi innovazioni e creazioni siano arrivate grazie agli introversi e ai timidi. Immaginare una cultura che sa dare loro ascolto, che li sa valorizzare per ciò che di buono effettivamente possono dare, significa cominciare a costruire un mondo meno aggressivo, più meritocratico, meno schiavo delle apparenze.

15 Ott 2012

Veladiano: Dio è impotente di fronte al male?

La scrittrice Mariapia Veladiano.

Chi ha letto La vita accanto (Einaudi) di Mariapia Veladiano aspettava la nuova prova della scrittrice, anche teologa, professoressa di Lettere. Si sentiva vibrare una voce nuova, in quel romanzo che aveva vinto il Calvino e sfiorato lo Strega. Storia “insolita” di una bambina brutta e della sua travagliata avventura in una società che fa dell’apparenza il criterio fondamentale di giudizio. Il tema del male nel mondo,  che già li si affacciava, diventa centrale nel novo romanzo, Il tempo è un dio breve, in uscita sempre da Einaudi il 23 prossimo.

Lo scandalo del male, nella forma acuta del dolore innocente, ovvero il dolore che colpisce chi è senza colpa, un bambino, è qui centrale. A esso si intrecciano altri temi: l’amore e la sua forza redentrice, la libertà dell’uomo, la depressione, la famiglia, fonte di gioia ma anche di “condanna” laddove fa venir meno l’apporto affettivo… Un romanzo appassionante, introspettivo, che entra con delicatezza nelle pieghe della psiche umana e dà vita a intensi diaologhi teologici. Al momento, non svelo niente di più…

È sicuramente nata una nuova scrittrice – per questo bastava già La vita accanto -, ora possiamo forse dire che è nata una scrittrice cattolica, definizione da non assumere come etichetta limitante, bensì come indicazione di una letteratura che, senza rinunciare in nulla alla cura della scrittura e al fascino del racconto, sa affrontare le grandi questioni della vita. Fra le quali, quella di Dio, dimenticata da buon parte della letteratura odierna.

 

12 Ott 2012

Non toccate gli innocenti

Questo articolo è, volutamente, senza alcuna immagine. Deve servire solo a levare una voce in difesa degli innocenti, il bambino prelevato a scuola nel Padovano e tutti gli altri, perché il male inflitto agli innocenti è irreparabile, insensato, scandaloso. Dobbiamo rifletterci tutti: papà, mamme, giudici, forze dell’ordine, società, politica, scuola…

«Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare» (Gesù Cristo)

 

12 Ott 2012

Nocedicocco, la fantasia dei draghi

Nocedicocco, creatura di Ingo Siegner.

Sto leggendo con grande piacere ai miei bambini Nocedicocco draghetto sputafuoco di Ingo Siegner (Einaudi ragazzi). Davvero un bel racconto per bambini. Il titolo citato è la prima puntata di una saga che ne comprende altri, una decina in tutto. Ne è protagonista un draghetto che vive con famiglie e simili nell’isola dei draghi. Una bella mappa iniziale ci illustra il loro mondo, con la zona abitata e le altre.

Nocedicco è alle prese con le paure, le gioie, le imprese di tutti i bambini, che non avranno difficoltà a indentificarsi con lui e le sue avventure. Deve imparare a volare, fa amicizia, supera difficoltà… L’illustrazione è delicata, morbida, colorata, di immediata comprensione per il bambino nella sua semplicità.

Ingo Siegner (www.ingosiegner.de) esibisce una scrittura semplice e coinvolgente e, soprattutto, sa costruire un modo di fantasia che conquista i piccoli lettori o ascoltatori. L’età indicata è dai cinque anni: mi sembra un’indicazione appropriata. Il volume si articola in una serie di capitoli compiuti in sé, in quanto racconta un episodio della vita del draghetto. Insieme, i diversi capitoli formano un vero e proprio “romanzo”.

Nocediccco quest’anno compie 10 anni. Ha venduto un milione e emzzo di copie nel mondo ed è stato tradotto in 15 lingue. È in preparazione il cartone animato. Tutti segni che ha conquistato l’immaginazione dei bambini.

11 Ott 2012

Mo Yan, il romanzo della Cina

Il nuovo Nobel per la Letteratura Mo Yan.

Mo Yan, dunque. Solo due cose.

La prima: come è già capitata nel 2011, e altre volte ancora, il Premio Nonino aveva anticpato il Nobel, assegnandogli il Premio internazionale nel 2005. Quando si ha in giuria gente come Claudio Magris e Ermanno Olmi, solo per citare i nomi più “letterari”, succede…

La seconda: allego qualche pezzo che ho scritto sul nuovo Nobel. Indubbiamente un grande.

Sul sito di Famiglia Cristiana: www.famigliacristiana.it/costume-e-societa/cultura/letto/articolo/nobel.aspx; su Famiglia Cristiana cartaceo: www.stpauls.it/fc05/0534fc/0534fc92.htm; su Il nostro tempo: www.ilnostrotempo.it/archiviopdf/2005/tempo_35/ILNTEMPO035G1K_009.pdf

11 Ott 2012

Enzo Bianchi, la Parola e le parole

Il priore della Comunità di Bose Enzo Bianchi.

Faccio parte della giuria tecnica del Premio letterario Città di Vigevano. Quest’anno il Premio nazionale alla carriera è stato assegnato a Enzo Bianchi, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose. E non poteva essere altrimenti, dato che il tema dell’edizione 2012 è “La forza delle parole”.

Ho avuto il piacere di scrivere la motivazione al premio, che gli verrà “consegnato” sabato 20 ottobre al Teatro Cagnoni di Vigevano. La riporto qui sotto.

«Se c’è un termine in grado di sintetizzare e restituire il senso dell’intensa parabola umana, intellettuale e pastorale di Enzo Bianchi, questo è proprio il termine “parola”. Essa ha costituito fin dall’inizio il fulcro e il centro della lunga esperienza del fondatore e priore della Comunità monastica di Bose. Pochi come Enzo Bianchi, in questi anni, hanno saputo ricordarci, sia attraverso le pubblicazioni sia attraverso gli interventi orali, che un corretto rapporto con la Parola chiede come condizione preliminare l’ascolto. Porsi di fronte alla Parola significa, anzitutto, fare silenzio, mettere a tacere le tante parole della quotidianità, creare dentro di sé un vuoto per creare uno spazio e mettersi in ascolto. Il priore insegna e testimonia che c’è una Parola che ci trascende, che si alza sopra il mormorio confuso delle nostre esistenze: la sola capace di ristorarle, orientarle, sostenerle, rinnovarle…

Qualunque parola umana nasca priva di questo legame con la Parola originaria apparirà stanca e ripetitiva e denuncerà presto il suo limite e la sua caducità. Le parole che ogni uomo è chiamato a dire, anzitutto nella trama della vita – ci rammenta Enzo Bianchi – si configurano dunque come risposta, come reazione alla voce originaria. Parole che l’uomo è invitato a spezzare come pane, per portare a tutti un pezzo di ciò che l’ascolto ha svelato: perché la parola va declinata tanto con l’iniziale minuscola – e quindi va ascoltata e custodita – tanto con la minuscola – quando deve essere incarnata nell’ordinarietà dei giorni.

Il crescente successo delle meditazioni affidate alla scrittura da Enzo Bianchi, come pure la grande attenzione che suscita ogni sua presenza nei dibattiti e nei festival, certificano come il pubblico abbia saputo riconoscere nelle sue parole un segno potente e autentico della Parola fondamentale».

9 Ott 2012

Sachs, un filosofo per l’economia

Jeffrey D. Sachs, un vero maestro del nostro tempo.

«Alla radice della crisi economica americana c’è una crisi morale, il declino della virtù civica tra le élite politiche ed economiche: mercati, leggi ed elezioni non bastano a reggere una società se chi è ricco e potente manca di rispetto, onestà e compassione nei confronti degli altri e del mondo. L’America ha sviluppato la più competitiva società di mercato, ma nel corso degli anni ha dissipato le sue virtù civiche: senza un rinnovato ethos della responsabilità sociale non potrà esserci una siginificativa e duratura ripresa economica (…)

Dobbiamo essere disposti a pagare il prezzo della civiltà, nei molteplici atti di buona cittadinanza in cui si articola: farci carico di un’equa quota di tasse, approfondire la nostra consapevolezza dei bisogni della società, svolgere con attenzione il nostro compito di custodia a vantaggio delle generazioni future, e tenere a mente che la compassione è il collante della società (…)

La società statunitense è troppo profondamente distratta dall’onnipresenza mediatica del consumismo per coltivare la pratica di una piena cittadinanza attiva (…)

Buona parte di questo libro si occupa della responsabilità sociale di chi è ricco: all’incirca quell’1 per cento di famiglie americane che non sono mai state così bene. Stanno arroccati nella loro posizione di privilegio, mentre circa 100 milioni di americani vivono in povertà o ai suoi marigini (…)

La ferocia della corsa alla ricchezza , a tutti i livelli della società, ha sfinito gli americani, privandoli dei benefici sociali che derivano da fiducia, onestà e compassione».

Frasi liberamente tratte non da un manuale di filosofia morale, ma da Il prezzo della civiltà di Jeffrey D. Sachs (Codice edizioni), uno degli economisti più influenti al mondo, già docente ad Harvard e ora alla Columbia University di New York, direttore dell’Earth Institute, consulente di diversi Governi e istituzioni, da sempre interessato ai temi della giustizia sociale, dello sviluppo sostenibile, del cambiamento climatico, della lotta alla povertà.

È, il suo, un testo straordinario che rilancia un capitalismo misto, in cui il mercato agisce liberamente, però in una cornice di regole stabilite dalla politica e in armonia con interventi pubblici, laddove si rendano necessari. Un saggio di una lucidità e profondità impressionanti, peraltro scritto con incredibile chiarezza.

Fosse per me, dovrebbe diventare un testo obbligatorio per ogni economista, filosofo e politico del mondo.

Per fare riferimento a un altro tema caro a questo mio blog – chi sono i maestri del nostro tempo? ce ne sono? – mi sento di dire che Jeffrey D. Sachs è una di quelle persone, anzitutto, e uno di quei pensatori, in seconda istanza, che dobbiamo annoverare fra i maestri di chi vuole costruire un mondo migliore.

 

Chi sono

Sono nato a Vicenza nel 1968. Mi sono laureato in Filosofia a Padova con una tesi su Martin Heidegger, poi ho frequentato il Biennio di giornalismo dell’Ifg di Milano. Sono caporedattore e responsabile del settore Cultura e spettacoli di Famiglia Cristiana. Mi sto occupando di Filosofia per bambini e per comunità (P4C). [leggi tutto…]

Preghiere selvatiche

There's a blaze of light In every word It doesn't matter which you heard The holy or the broken Hallelujah
Leonard Cohen